di Isabel IvanescuEva KahanNewlines Magazine, Stati Uniti
Mazen stava costruendo una tenda per la sua famiglia quando alcuni amici l’hanno avvicinato,
parlandogli della possibilità di essere inviato in Libia per fare parte di una milizia sostenuta dalla Turchia.
Nella Siria controllata dal regime di Bashar al Assad, la famiglia di Mazen era stata più volte costretta a scappare da casa e ora si stava trasferendo in un accampamento di fortuna a Idlib, una città controllata dall’opposizione nel nord del paese. Il figlio minore, Rami, era gravemente malato. La loro era una vita di povertà estrema, insostenibile. Nel luglio del 2020 Mazen ha percorso quasi duemila chilometri nella speranza di cambiarla (il suo nome, come gli altri dell’articolo, è stato cambiato per motivi di sicurezza).
Per ogni mese in missione a Mazen sono stati offerti duemila dollari, una somma sufficiente per pagare almeno un anno d’affitto di un appartamento a Idlib. La sua determinazione ad arruolarsi era rafforzata dal risarcimento promesso alla famiglia nel caso fosse morto all’estero. Le truppe sostenute dalla Turchia garantivano un pagamento di sessantamila dollari in caso di decesso, una somma quasi inaudita per la Siria in tempo di guerra. “La morte esiste qui come esiste lì”, ha pensato Mazen, “ma se muoio lì, i miei figli vivranno”.
La decisione non è stata facile. “Alcuni parenti ci hanno criticato”, ricorda Mazen. “Mi chiedevano se volevo davvero essere un mercenario. Ma ci servivano i soldi. Guardavo mio figlio malato e non potevo fare nulla per lui. È quello che mi ha spinto a partire”.
Timore divino
I reclutatori finanziati dalla Turchia hanno detto a Mazen che avrebbe dovuto battersi contro il gruppo Stato islamico (Is), gli iraniani e i russi: i nemici della rivoluzione siriana. Aveva qualche dubbio, dato il fragile cessate il fuoco di Turchia e Russia a Idlib. E i suoi dubbi hanno presto trovato conferma. Ha scoperto appena arrivato di essere stato ingannato a proposito di chi e come avrebbe dovuto combattere.
I combattenti sostenuti dalla Turchia in Libia erano schierati per lo più contro i libici, e addirittura contro altri siriani reclutati dalla Russia. “È una sensazione indescrivibile”, dice Mazen. “Sapevamo che stavamo combattendo contro dei musulmani come noi. Ho pensato ‘questo è haram’, Dio, la religione lo vieta. E ho cercato di non uccidere”.
I comandanti hanno reso ancora più profondo il suo trauma con insulti, umiliazioni e botte. “Se non svolgevi bene un compito o non eseguivi gli ordini”, ricorda Mazen, “ti picchiavano fino a romperti le ossa”.
Un combattente arrivato quindici giorni dopo Mazen era “spaventato dagli scontri” e ha detto al suo comandante di voler tornare in Siria. Alcune guardie gli hanno rotto entrambe le gambe e lo hanno gettato nella prigione della sua unità fino alla scadenza del contratto.
A un altro giovane è stato detto “puoi tornare in una bara o dopo la scadenza del tuo contratto”. Ai combattenti che hanno contemplato l’idea di andarsene – e ce n’erano tanti – i comandanti rispondevano con la violenza. Lo stesso Mazen sperava di tornare prima ma si è trovato in trappola … leggi tutto
(Omar Ram)