Torniamo a parlare di lavoro (corriere.it)

di Maurizio Ferrera

NON DI LICENZIAMENTI

La «knowledge economy» aiuta a mantenere alti livelli di occupazione, ma l’Italia è ancora in mezzo al guado

Il tema del lavoro è oggi al centro dei dibattiti in tutta Europa. Solo in Italia l’attenzione è però quasi tutta focalizzata sui licenziamenti e sugli ammortizzatori sociali. Questa ossessione è connessa alla cultura fortemente protezionistica che (ancora) caratterizza i sindacati e larghi segmenti della sinistra, che rischia di essere controproducente per le stesse persone che si vorrebbero tutelare. Ma vi sono altre comprensibili e più profonde ragioni, su cui è bene riflettere.

Perdere il lavoro è sempre un’esperienza traumatica. In un Paese con una quota ancora altissima — rispetto agli altri Stati europei — di famiglie monoreddito, il licenziamento può avere serie conseguenze in termini di sicurezza, soprattutto quando finiscono le indennità di disoccupazione. Non è un caso che l’80% di italiani dichiarino oggi di essere molto preoccupati per la propria situazione economica nei prossimi due anni: 20 punti in più della Germania, il doppio della Danimarca.

La pandemia ha esasperato la situazione. Ma quella di perdere il posto è da noi una paura atavica, che ci portiamo dietro sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Una paura che spiega perché la Cassa integrazione — e non la Naspi, l’indennità di disoccupazione — sia considerata l’ammortizzatore sociale per eccellenza. E che al tempo stesso spiega la spasmodica avversione al licenziamento, anche quando le aziende non riescono più a restare sul mercato.

Durante la crisi Covid, solo una manciata di Paesi ha introdotto il divieto di licenziare, per brevi periodi di tempo. In Italia il blocco è durato quindici mesi, ed è peraltro ancora in vigore per alcuni settori. Negli altri Paesi i lavoratori disoccupati vengono trasferiti su un binario parallelo di ricollocamento. Il secondo reddito della famiglia e l’indennità temporanea di disoccupazione attutiscono l’insicurezza economica, mentre i servizi per l’impiego accompagnano verso un nuovo posto di lavoro, quasi sempre dopo un periodo di ri-qualificazione professionale.

In Italia il licenziamento rischia invece di essere un salto nel buio. Le politiche attive sono deboli e poco efficaci. Molte imprese cercano personale da assumere, a patto che abbia certe competenze. Manca però un sistema informativo nazionale, mentre le politiche formative sono gestite da una molteplicità di attori, con risorse scarse e metodi poco efficaci.

Ovviamente, le politiche attive hanno tanto più successo quanto più numerose sono le richieste delle imprese. La crisi Covid ha depresso in tutta Europa la domanda di lavoro e a pagarne le conseguenze sono state in particolare donne e giovani con contratti a termine. Ma il problema italiano è che già prima della pandemia i livelli di occupazione erano molto bassi. È questo il bandolo della matassa … leggi tutto

(Alex Kotliarskyi)

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