Le responsabilità americane sono evidenti.
Dopo le aperture di Barack Obama, l’amministrazione Trump ha indurito le sanzioni economiche. Joe Biden ha deciso di non decidere
Le immagini sono sotto gli occhi di tutti. La loro forza parla il linguaggio della realtà. Ragazzi che sfilano in varie città cubane, pacificamente, gridando «libertà» e «abbasso la dittatura» – o cantano «patria e vita» rovesciando il binomio sinistro di «patria o morte» – non possono essere solo lo strumento di «controrivoluzionari». Sono qualcosa di più. E l’errore di Miguel Díaz-Canel, il «delfino» dei Castro che ha chiamato alla mobilitazione le sue truppe, è di non voler arrendersi alla verità ma di arroccarsi nella difesa di un ordine destinato prima o poi a crollare.
La voglia di democrazia, quando arriva il momento, è sempre più forte della conservazione. Vedremo nei prossimi giorni, nelle prossime settimane o nei prossimi mesi come evolverà questa ondata di rivolta. Il suo vento caldo si farà certamente sentire. Una cosa è sicura: la leadership cubana ha perso fino a questo momento la grande occasione – dopo la morte di Fidel e l’addio di Raúl – di pilotare una transizione che era ormai scritta nel libro del mondo.
L’ascesa di Díaz-Canel aveva inizialmente fatto sperare in cambiamenti (stimolati dalle emergenze, non tanto dal coraggio dei singoli uomini) che fossero più significativi di qualche liberalizzazione. Il fatto che si paragonino gli avvenimenti di oggi con le proteste del «biennio della fame» (1993-1994) fa capire chiaramente quanto l’orologio della Storia abbia segnato in questi decenni all’Avana un’ora sempre sbagliata.
E meglio non dimenticare, però, che l’isola della rivoluzione anti-Batista è stata lasciata troppo sola. Il suo anacronistico regime non è stato aiutato a riformarsi … leggi tutto