Le Olimpiadi di Tokyo sono entrate nella Storia prima ancora di cominciare:
non solo perché sono state posticipate di un anno a causa della pandemia, ma anche perché per la prima volta potrebbero vedere la partecipazione di un’atleta transgender. Anche se i membri della squadra neozelandese verranno convocati in via ufficiale solo il 5 luglio, infatti, la sollevatrice di pesi Laurel Hubbard è già stata indicata come eligible il 21 giugno scorso da parte del Comitato Olimpico dell’isola. Un evento storico, perché, se già dal 2003 i regolamenti olimpici aprono agli sportivi transgender, non era mai successo. La notizia, come prevedibile, ha suscitato anche delle proteste. I dubbi vanno risolti, dato che casi come quello di Hubbard saranno sempre più frequenti. Scienza e giurisprudenza, però, hanno appena iniziato a farlo.
Lo sport è ossessionato dal sesso delle donne, che è oggetto di presunte misurazioni per evitare gare impari fin dagli anni Trenta del Novecento, quando la velocista Stella Walsh fu sottoposta a un test perché si riteneva che una donna non potesse essere così veloce.
Nei decenni successivi per attestare il sesso femminile era necessario un certificato del proprio medico, poi ritenuto insufficiente negli anni Sessanta, quando la partecipazione delle donne nelle gare aumentò, le prestazioni migliorarono e crebbe il ricorso a farmaci per alterare le performance, come fece per anni la Germania Est, somministrando per prassi ormoni alle atlete, fino a provocare loro pesanti problemi fisici e psicologici.
Furono così introdotti esami clinici per accertare il genere delle atlete, che erano osservate nude e sottoposte a una visita ginecologica; una procedura non pertinente agli obiettivi sportivi, tanto che qualcuna preferì rinunciare alle gare. Nel 1967 alcune competizioni europee introdussero il test cromosomico per determinare il sesso, imitate l’anno dopo dal Comitato Olimpico Internazionale; l’idea di base era il fatto che ciascuno ha 46 cromosomi organizzati in 23 coppie, delle quali una differisce tra maschi (cromosomi XY) e femmine (XX): l’analisi avrebbe quindi determinato senza dubbi chi era una donna e chi no.
Alcune atlete scoprirono in questo modo, di avere anomalie cromosomiche e forme di intersessualità.
Successe per esempio all’ostacolista spagnola Maria Josè Martínez-Patiño, alla quale nel 1985, alle Universiadi di Kobe in Giappone, il test rivelò la presenza del gene XY, che però, per effetto della sindrome da insensibilità agli androgeni, non dava effetti anatomici … leggi tutto