I libri non danno la felicità (doppiozero.com)

di Giuseppe Lupo

Si narra dalle mie parti che un uomo sia stato 
visto, un giorno, con in mano la pagina capovolta 
di un quotidiano. 

A chi glielo faceva notare, rispondeva: «Uno che sa leggere, sa leggere anche alla rovescia». Fingeva per darsi un tono intellettuale, è chiaro, ma era analfabeta. Nella sua pittoresca verità quest’aneddoto si coniuga bene con l’assunto da cui si origina il ragionamento che Luigi Mascheroni conduce in questo suo Libri. Non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, p. 40, euro 12): sfatare l’opinione che sia importante leggere a prescindere da cosa, che cioè non occorra selezionare, purché si stia con un libro in mano.

Non c’è nulla di più falso e ipocrita di questa affermazione, sottolinea l’autore di questo agilissimo pamphlet, perché, quando pensiamo a un quadro di riferimenti nei quali il libro assume una precisa fisionomia – non è intrattenimento, non è evasione, non è esibizione di sé –, bisogna scegliere, dividere il grano dal loglio e, in altre parole, leggere bene.

Il sospetto che la proposta avanzata da Mascheroni sia la rivincita di un crocianesimo declinato in chiave postmoderna può avere una sua credibilità. Come l’antica distinzione tra poesia e non-poesia con cui Benedetto Croce apriva il Novecento, anche il nostro tempo impone la necessità di operare dei distinguo. Il che non si traduce nell’ipotesi di stabilire gerarchie o di creare classi di appartenenze, ma certo obbliga a fare i conti con il mercato.

Non sono persuaso che Mascheroni in queste pagine abbia voluto resettare tutta la cultura di un secolo in cui si è modificato lo statuto di editoria, spostando l’impostazione da uno stadio di artigianalità a un livello decisamente industriale, dove a guidare le scelte è il mercato. Ma il suo occhio è puntato a sfatare i falsi miti che le convenzioni si portano dietro. Il tema ha evidenti caratteri provocatori ed è senza dubbio uno degli argomenti più attuali in tempi di crisi come quelli che stiamo attraversando.

Esiste una retorica legata all’esercizio del leggere, questo in sostanza è il dato da cui comincia l’arringa di questo testo, tanto fastidiosa quanto inopportuna, che spesso alligna perfino in luoghi come le istituzioni scolastiche, designate per statuto a incentivare la cultura.

Proprio lì, infatti, pur di avviare studenti alla lettura, si è disposti a venire a patti con i loro gusti da fast-food, a proporre loro opere di più scadente fattura ma coccolate da un sapore mainstream che non inquieta nessuno e nemmeno turba, anzi mette tutti d’accordo, docenti e studenti, nella comune convinzione che basti avere tra le mani un libro per essere considerati lettori e, dall’altro lato, aver promosso la lettura e sentirsi con la coscienza a posto.

Siamo soltanto alla prima di questa apologia dell’antiretorica, ma non è che il preludio di ciò che si professa nelle pagine successive, dove si smonta sistematicamente l’idea che i libri rendano migliori, che godano di una intoccabilità sacrale, che siano un prodotto non avulso dalle regole del mercato e che sarebbe un orrore trattarli come merce … leggi tutto

(Laura Kapfer)

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