Manzoni, pandemia, mentalità paranoide e i pericoli alla fine del lockdown (indiscreto.org)

di Edoardo Rialti

Nei suoi saggi il celebre scrittore ha ben 
evidenziato i rischi di qualunque ideologia, 

anche e soprattutto di quelle che consideriamo “giuste”.

Auden, 1 Settembre 1939

La Peste di Camus termina con un sorriso mesto che possiamo riconoscere molto bene, giacché ciò che lo causa è tutto intorno a noi. Anche adesso, dopo mesi di restrizioni e mille oscillazioni, con gambe malferme le persone si riversano fuori, si tuffano nell’aria calda dell’estate. Si vuole vivere, viaggiare, si fotografa e condivide qualsiasi dettaglio, si brandiscono aperitivi come trofei o fiaccole, si tira fuori la lingua nei selfie come chi sogghigni vittorioso dopo una carica a cavallo.

Spesso chi più si sbraccia, quasi artigliasse l’aria, persino chi, in piena pandemia, sbirciava dalle finestre i potenziali eversori delle norme, lodava entusiasta le nuove prospettive della didattica a distanza, annetteva ai deliri dei negazionisti chi ammoniva sui rischi d’uno stato di emergenza perenne che paralizzi ogni linguaggio associativo o di contestazione politica. Ma un simile pendolo non costituisce niente di nuovo sotto il sole, che gli uomini deraglino tra opposti errori lo aveva già registrato Platone nella Repubblica. Pure La Peste si conclude tra i dolci delle bancarelle, i bambini che corrono tra i tavoli dei gazebo, la voglia di dimenticare tutto nella luce dorata del lungo tramonto estivo.

Ascoltando, infatti, i gridi d’allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava, che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili, e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.

È il motivo per cui, da un certo punto di vista, avverto quasi più il bisogno di leggere pagine simili adesso che nei mesi opprimenti delle chiusure, ora che i muscoli delle relazioni sociali, persino nel semplice spingersi oltre determinati perimetri della mia città, duole come un muscolo rattrappito.

Quand’ero chiuso in casa avevo bisogno di ricordarmi del mare, di una collina verde su cui corrono nuvole bianche, di fumare guardando i tetti d’una città mai visitata prima, d’un concerto dove le braccia scure di tutti si agitino come le fronde degli alberi investite da una bufera.

È adesso che sento di tornare alla polla di silenzio con cui Rieux osserva gli abbracci, i gelati, le risate. Per avere parole e immagini con cui guardare al fiume più o meno sotterraneo dei nostri disastri … leggi tutto

(Edwin Hooper)

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