La mente bicamerale e l’origine della coscienza (indiscreto.org)

di Julian Jaynes

Un’anticipazione da Le voci perdute degli dèi, 
un’antologia di saggi di Julian Jaynes, 

in cui lo psicologo americano delinea la sua originale tesi sull’origine della coscienza, ovvero che la coscienza sia una forma recente, faticosamente conquistata, che si distacca dal fondo arcaico della “mente bicamerale”.

Chi sono io? Si tratta di una domanda estremamente importante che sorge in diversi momenti della nostra esistenza, in particolare durante l’adolescenza. Chi e che cosa sono io? Ho uno scopo nella vita? Che significato ha la mia vita? Che cos’è il mio vero sé? E perché solleviamo questo problema? Perché il sé è un oggetto così sfuggente che quando proviamo a toccarlo sembra svanire?

Stiamo parlando di un problema che ci siamo posti tutti. Vorrei ricordare Peer Gynt, il più grande poema drammatico di Henrik Ibsen. In una delle sue grandiose scene, Peer Gynt, dopo aver vissuto avventure straordinarie di vario genere, giunge a chiedersi: «Qual è il mio vero sé?».

Tira fuori una cipolla e dice: «Adesso ti sbuccio, mio caro Peer!». Sbuccia allora il primo strato, rimuove poi il secondo… avvicinandosi al sé autentico; toglie un altro strato, poi ancora un altro, finché… non rimane nulla. È tutto uno sbucciare, ma non c’è alcun nucleo o nocciolo del sé. Ed è proprio questo vero sé ciò che molti noi vogliono trovare realmente.

Oggi vi condurrò in un viaggio alla scoperta degli sviluppi della psicostoria, della storia della mente  e riguarderà ciò che noi pensiamo del sé.

Vorrei anzitutto distinguere il sé dal sé corporeo. A tal riguardo, John Locke ideò un esperimento mentale molto interessante: «Immagina di tagliarti un dito; il tuo sé è forse diminuito? Certo che no». Pertanto, qualsiasi idea abbiate di voi stessi non coincide con il vostro sé corporeo. Si tratta di una distinzione molto importante da tenere a mente.

Vorrei inoltre ricordare uno degli esperimenti più affascinanti condotti ancora oggi: l’esperimento fu inizialmente sviluppato da Gordon Gallup e consisteva nell’osservare la reazione degli scimpanzé di fronte a degli specchi. Gli scimpanzé adorano gli specchi e si divertono moltissimo a giocarci: si osservano e imparano ogni genere di cose, utilizzano le immagini riflesse per osservare parti del proprio corpo che altrimenti non avrebbero potuto osservare, o per guardare l’ambiente circostante.

Gallup allevò quindi degli scimpanzé dando loro la possibilità di prendere confidenza con gli specchi; successivamente, dopo averli anestetizzati, fece una macchia rossa sulla loro fronte, aspettando di vedere la loro reazione. Una volta risvegliati, gli scimpanzé si guardarono allo specchio e cancellarono immediatamente la macchia dal loro volto. Questo esperimento è considerato da alcuni come la prova definitiva dell’autocoscienza. Io non penso che sia così: si tratta soltanto di consapevolezza corporea.

Ciò che scrutiamo allo specchio non è il sé che Peer Gynt cercava di trovare sbucciando la cipolla, non è il vero sé a cui rivolgiamo la nostra ricerca esistenziale. Quando vi osservate allo specchio, siete consapevoli che ciò che vedete non è il vostro vero sé, ma il vostro sé corporeo. Questa è la prima distinzione che andrò a fare.

L’umanità bicamerale disponeva ovviamente di un sé corporeo. Ma intorno al 1300 a.C., giungiamo a una distinzione molto più decisiva, testimoniata dalle iscrizioni che si possono trovare nei templi assiri e che implicano il senso del tempo.

L’ingresso del tempo nella mente umana rappresenta un fattore decisivo. Si possono distinguere due tipi di tempo. Uno è la durata: si tratta del tempo della fisica, delle stelle, dell’origine dell’universo, della crescita e del decadimento, ecc. Non possiamo esserne consapevoli; per avere a che fare con questa temporalità dobbiamo spazializzarla, dobbiamo metaforizzarla, trovarne un analogo … leggi tutto

(Natasha Connell)

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