di Yuk Hui
La Cina si avvia a diventare la più grande potenza tecnologica del mondo.
Eppure, nel pensiero filosofico cinese la tecnica non è mai esistita. E così, se l’Occidente resta è convinto che la «questione della tecnologia» possa essere spiegata nei termini universali della tradizione europea, la Cina sembra destinata a replicare gli identici disastri: Yuk Hui tenta un approccio diverso attraverso la rilettura del pensiero tradizionale cinese e di filosofi asiatici e occidentali.
Nel 1953 Martin Heidegger pronunciò la sua famosa conferenza «Die Frage nach der Technik», nella quale annunciava che l’essenza della tecnologia moderna non è affatto tecnologica; piuttosto, riguarda l’imposizione [Ge-stell] – una trasformazione della relazione tra uomo e mondo tale per cui ogni essere è ridotto allo stato di «fondo» o «riserva» [Bestand], qualcosa che può essere misurato, calcolato, e sfruttato.
La critica heideggeriana della tecnologia moderna ha inaugurato una nuova consapevolezza del potere tecnologico, che era già stato interrogato da autori tedeschi a lui vicini come Ernst Jünger e Oswald Spengler. Gli scritti di Heidegger posteriori alla «svolta» [die Kehre] nel suo pensiero (solitamente datata attorno al 1930), e questo testo in particolare, dipingono il passaggio dalla technē come poiesis o produzione [«portare alla luce», Hervorbringen] alla tecnologia in quanto Gestell come una conseguenza necessaria della metafisica occidentale, e come un destino che richiede una nuova forma del pensare: il pensare la questione della verità dell’Essere.
La critica di Heidegger trovò un pubblico ricettivo in diversi pensatori orientali e in particolare negli insegnamenti della Scuola di Kyoto, così come nella critica daoista della razionalità tecnica che identifica la Gelassenheit heideggeriana con il concetto daoista classico di wu wei o «non-azione». Questa ricettività è comprensibile per diverse ragioni: in primo luogo, i pronunciamenti di Heidegger sul potere e i pericoli della tecnologia moderna sembravano essersi concretizzati con le devastazioni della guerra, dell’industrializzazione e del consumo di massa, portando a un’interpretazione del suo pensiero nei termini di un umanismo esistenzialista, simile a quello degli scritti di metà secolo di Jean-Paul Sartre.
Tali interpretazioni risuonavano profondamente con le ansie e il senso di alienazione suscitato dalle rapide trasformazioni industriali e tecnologiche della Cina moderna. In secondo luogo, le meditazioni heideggeriane echeggiavano le dichiarazioni di Spengler sul declino della civiltà occidentale, sebbene in chiave più profonda; in tal senso, si sarebbero potute considerare come un appiglio per l’affermazione di valori «orientali».
Simili affermazioni, tuttavia, portano a una comprensione ambigua e problematica della questione della tecnica e della tecnologia, e hanno impedito l’emergere in Oriente di qualsiasi pensiero realmente originale sul tema – con la discutibile eccezione delle teorie postcoloniali.
Discutibile, poiché esse implicano una tacita accettazione dell’idea che esista un solo tipo di tecnica e un solo tipo di tecnologia, le quali vengono così considerate antropologicamente universali, come se avessero qualche funzione transculturale, e potessero dunque essere spiegate sempre negli stessi termini … leggi tutto