di Iuri Maria Prado
Negli anni Ottanta si ritenne che per debellare la criminalità mafiosa occorresse inventare il delitto mafioso,
e cioè punire la mafiosità dell’omicidio, del furto, della truffa, dell’estorsione, della corruzione, con il risultato che le indagini e i processi presero a svilupparsi sulla base dell’indizio di mafiosità e a prescindere dal necessario riscontro circa le effettive responsabilità delittuose. È stato un errore
Non si offenderebbe la memoria del generale Dalla Chiesa, ieri celebrata dal presidente della Repubblica, riguardando con giudizio equanime i quarant’anni di mezzi sbagliati che lo Stato ha adoperato al giusto fine di trionfare sul crimine organizzato.
Anzi, lo Stato che commemora le vittime illustri della violenza mafiosa renderebbe loro un servizio migliore se non omettesse sistematicamente di riconoscere il vizio capitale delle politiche cosiddette antimafia: che fu di aver voluto contrastare quell’offensiva con una legislazione simbolica, totemistica, e con un tentativo di rifondazione sociale per via giudiziaria.
Al mafioso secondo cui “la mafia non esiste” si rispose mettendo la mafia dove non dovrebbe esistere, e cioè nella legge. Perlopiù (non sempre) in buona fede, si ritenne cioè che per debellare la criminalità mafiosa occorresse inventare il delitto mafioso, e cioè punire la mafiosità dell’omicidio, del furto, della truffa, dell’estorsione, della corruzione, con il risultato che le indagini e i processi presero a svilupparsi sulla base dell’indizio di mafiosità e a prescindere dal necessario riscontro circa le effettive responsabilità delittuose.
Perché divenne quella, la presunta matrice di mafia, la cosa che qualificava ed esauriva la fattispecie. “Arrestato per mafia”, “Condannato per mafia”, non furono più soltanto semplificazioni giornalistiche: diventarono realtà processuali.
E si giunse a tanto, appunto, proprio per il trionfo di quella concezione fuorviante e pericolosissima dell’attività inquirente e giurisdizionale: l’idea, cioè, che essa abbia il compito di tutela sociale che ancora una volta, perlopiù in buona fede, propugna la cultura cosiddetta antimafia.
Se fossimo in uno Stato di diritto quella cultura apparterrebbe a una vaga congerie di ininfluente moralismo autoritario, ma nello Stato confessional-giudiziario cui è ridotto il nostro sistema essa si è incartata nelle leggi che combattono la mafia come si combatte il malocchio, la stregoneria, insomma “il male” … leggi tutto
(mahdi rezaei)