di Rumena Bužarovska (Traduzione di Francesca Romana Cordella)
Nata nel 1981 in Macedonia del Nord,
Rumena Bužarovska appartiene a quella generazione di giovani jugoslavi “passati dalle estati in spiaggia alla strage“. La guerra nel suo paese d’origine l’ha seguita dall’Arizona, dove si è trasferita con la famiglia. Al suo ritorno non era rimasto nulla del paese della “fratellanza e dell’unità”, il motto sul quale Tito aveva fondato la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Questo paese, ormai distrutto, oggi esiste, secondo l’autrice, nella generazione di artisti e attivisti che stanno creando una “nuova Jugoslavia”.
Tra i miei ricordi più belli della Jugoslavia della metà degli anni Ottanta ci sono le estati, lunghe e calde. Nei mesi di luglio e agosto Skopje, la capitale della Repubblica jugoslava di Macedonia (oggi della Macedonia del Nord) era, per me, un paesaggio idilliaco disabitato, al quale un sottofondo di grilli faceva da colonna sonora. Io e mio fratello trascorrevamo le vacanze estive a Mavrovo, in una casa che aveva costruito mio nonno insieme a un suo amico partigiano che aveva combattuto nella guerra civile greca. Mio nonno era greco, il suo amico di origini macedoni.
Nella zona c’erano diverse casette di villeggiatura, abitate da pensionati che avevano i nipotini come ospiti per l’estate. Mentre i nonni giocavano a backgammon, trafficavano in giardino, cucinavano, oppure sorseggiavano ouzo e rakija e facevano un pisolino dopo i pranzi abbondanti, i bambini gironzolavano nelle strade polverose o nella boscaglia intorno.
I bambini giocavano a nascondino o “partigiani contro tedeschi”, le bambine si inventavano storie di principesse. Mi ricordo di quella che volta che giocavo con altre due bambine ed ero finita a litigare con una di loro. Si chiamava Viki. Mi metteva in cattiva luce davanti a Beti, l’altra bambina. Strizzando gli occhi, diceva sprezzante: “Stai giocando con una bambina greca”.
Ricordo ancora di come le parole di Viki mi avessero lasciata di stucco. La mia risposta fu rapida e nervosa: con aria di superiorità e tono da saputella le ho detto che vivevamo nel paese dove “fratellanza e unità” erano la regola. Tornai a casa arrabbiata e raccontai alla mia famiglia l’accaduto; ricambiarono con grasse risate.
“Fratellanza e unità” ripetevano, come se volessero prendersi gioco di me. Devo aver replicato ed essermi palesemente infuriata, tanto che mio nonno, con un grande sorriso decorato dal suo dente d’oro, mi rispose che stavano sì ridendo, ma non di me, e che in realtà avevo ragione … leggi tutto