Il banchetto annuale della confraternita dei becchini,
appena uscito per edizioni e/o, è un trionfo dell’erudizione giocosa e dell’affollamento pittorico tipici dello scrittore francese.
Qualche anno fa, quando il comune editore mi invitò a cena con Mathias Enard di passaggio in Italia, pensai: «Oddio, a tavola con il premio Goncourt: chissà che due palle». Arrivato, mi trovai accanto un uomo corpulento, rubizzo, allegro, con due folte basette (un tempo si sarebbero detti “favoriti”), capace di parlare non so quante lingue tra cui l’italiano. Famelico, curioso, gioviale, bevitore, simpaticissimo.
La serata fu lunga, nebbiosa, stratificata, tanto quanto i romanzi di quello che si può definire uno tra i più grandi scrittori mondiali, erede di una stirpe massimalista, erudita, coraggiosa. E Il banchetto annuale della confraternita dei becchini (edizioni e/o, traduzione di Yasmina Melaouah) non fa eccezione. Anzi, dopo il funambolismo verbale di Zona e l’avventura dolente di Via dei ladri e l’orientalismo di Bussola, rilancia o rimette in gioco o rimette tout court un flusso sontuoso di parole, visto che di indigestione rabelaisiana, di vite e di storie, si parla.
All’inizio del libro ci troviamo davanti al diario in prima persona di un giovane antropologo che, per paura di flora e fauna assortite, ai climi esotici ha preferito la provincia francese (nello specifico la zona tra La Rochelle e Poitiers: verso est, diciamo che se la Francia fosse un corpo sarebbe il fegato). Ha ribattezzato il posto “Pensiero Selvaggio”, seguendo Lévi-Strauss, ed è deciso a intervistare i locali su scelte, abitudini, vocazioni, lavoro. Fare insomma un vero e proprio scandaglio antropologico per scrivere «la vera monografia rurale che mancava all’etnologia contemporanea».
Patisce il freddo, gironzola in motorino, alla sera fa sesso online con la ragazza rimasta a Parigi, ironizza sul contrasto tra la modestia del soggetto di studio e l’altezza dei soggetti su cui ha studiato («… il sindaco ha deciso di presentarmi ai giocatori di carte, che mi hanno guardato come se fossi un marziano. Per usare il linguaggio di Lévinas, si potrebbe dire che hanno visto su di me il volto dell’alterità») e cataloga: c’è lo scemo del villaggio che – come un wikipedia umano – conosce a memoria ogni cosa accaduta in una determinata data passata, il pittore dall’ispirazione scatologica, il prete non del tutto indifferente al richiamo delle curve, ossia tutto quello che potrebbe entrare in un giallo sì, ma più grottesco, più articolato.
Si sente che qualcosa scricchiola. In una frase come «c’è odore di pece, di legna bruciata e di ricordi», il terzo elemento in un libro di Simenon non arriverebbe mai. C’è la grazia e il tedio della provincia, ma c’è anche il ribollio di qualcosa, il brulichio della memoria e delle creature, come se stesse per arrivare un’onda anomala, un cataclisma narrativo. Che, puntualmente, arriva … leggi tutto