Il populismo dei Letta, che sostiene l’idea della società «più avanti» delle istituzioni, serve a trovare il capro espiatorio della sconfitta parlamentare.
Ma così i conti non tornano: ai numeri si fa dire qualcosa che non dicono
L’idea che la società sia “più avanti” delle istituzioni, rilanciata da Letta a proposito del ddl Zan, è stata, come giustamente ha ricordato Mario Lavia, il precursore ideologico della Vandea populista, giunta a teorizzare che per un legame democraticamente autentico tra cittadino e Stato occorresse passare a una forma di autogoverno plebiscitario di santoni e capipopolo, benedetti dall’acclamazione popolare.
Insomma, l’idea modernissima di sostituire il Parlamento con una Piazza Venezia digitalizzata.
È pur vero che nella storia italiana sui temi dei diritti civili le leggi più importanti, dal divorzio all’aborto, riuscirono a vedere la luce grazie a una fortissima mobilitazione extra-istituzionale, orchestrata peraltro da un partito, quello radicale di Pannella, che aveva un senso classico e quasi tradizionalistico delle istituzioni rappresentative e si proponeva semmai il vasto (e incompiuto) programma di liberare il Parlamento dalla partitocrazia, non di liberare il popolo dal Parlamento.
Ma si trattò in ogni caso di leggi votate dalle camere, delle quali i referendum confermarono nel Paese il consenso guadagnato in Parlamento da maggioranze trasversali e non governative.
Comunque, se è vero che il ricorso alla retorica «il Paese è più avanti» rispecchia un’abitudine ormai invalsa nella politica italiana, temo non sia vero che a proposito del ddl Zan i numeri in Italia siano così schiacciantemente favorevoli.
E per diffidarne non occorre immaginarsi pessimisticamente un Paese attardato nel più vieto pregiudizio omo-lesbo-transfobico. Basta ritenerlo comprensibilmente diffidente e confuso per una legge che non si limita affatto, come sarebbe stato opportuno, ad aggiungere l’aggettivo “sessuali” agli aggettivi “razziali, etnici, nazionali o religiosi”, che qualificano le motivazioni per cui sono applicabili circostanze aggravanti o per cui la propaganda d’odio e l’istigazione alla discriminazione o alla violenza oggi costituiscono, di per sé, un reato.
Chi ha scritto il ddl Zan, facendolo immeritatamente diventare la pietra angolare della cultura dei diritti in Italia, ha scelto di andare oltre e di arzigogolare una serie di classificazioni casistiche su quali profili sessuali delle persone – biologico, di genere, di orientamento, di identità auto-percepita e auto-rappresentata – fossero meritevoli di tutela e quali espressioni “scorrette”, per quanto legittime, potessero considerarsi idonee a determinare indirettamente atti di discriminazione e di violenza.
Si tratta appunto di una scelta legislativa abbastanza spericolata e prevedibilmente controversa, che ai tempi della legge Mancino ci si guardò bene dal prendere a proposito della razza, dell’etnia, della nazionalità e della religione. Comunque, cosa fatta capo ha.
Se c’è però un aspetto in cui nel Palazzo e nella piazza, tra i politici e tra la gente (con un numero di g a piacere), si finisce un po’ tutti per somigliare, non è sul modo di intendere le fondamentali questioni di diritto, ma di addomesticare i termini di ogni discussione in modo così smaccatamente fasullo, da rendere il dibattito (con un numero di t a piacere) un puro rimbombo di ideologie tarocche … leggi tutto