C’è una fotografia francese tutta da scoprire in Italia,
almeno dal grande pubblico, una fotografia che non è quella dell’istante decisivo di Cartier-Bresson né quella più didascalicamente umanista, come è stata chiamata, e sentimentale dei Doisneau, Izis, Boubat, una fotografia casomai, se mi si permette la battuta, umana piuttosto che umanistica, che è venuta dopo quelle due, per l’appunto sulla loro critica. Raymond Depardon ne è uno dei rappresentanti eccellenti.
Ora è un dato acquisito, tanto che Depardon è reporter della gloriosa e potente agenzia Magnum, ma mantiene anche al suo interno una posizione anomala, singolare. Non è reporter del tipo cacciatore di notizie e di immagini che le documentino, è soprattutto un viaggiatore, ma, di nuovo, non quello avventuroso o quello spettacolare, bensì quello della “solitudine felice”, come titola un suo libro (La solitude heureuse du voyageur, Points, 2006).
L’ha sintetizzato egli stesso nell’introduzione al suo libro Voyages (Hazan, 1998): “Di fatto, sono partito per fotografare combattenti, terremoti o principesse, e ho fotografato contadini. Poi il viaggio mi ha permesso di scoprire la mia vita, di scoprire l’amore, molto semplicemente. In una certa misura, mi chiedo se ho veramente viaggiato, perché ho portato con me la mia camera, il mio amore, o i miei problemi di comunicazione, o semplicemente il mio problema di vita”.
Siamo cioè di fronte a un fotoreporter che guarda il quotidiano piuttosto che l’evento e si confronta con essi, quotidiano ed evento, portando dentro i suoi umori e problemi, invece che, come è prassi nel fotogiornalismo, pensare di documentarlo oggettivamente. Il viaggio è la vita, pare banale ribadirlo, ma farlo dà risultati come i suoi, e non altri: la tonalità – le infinite sfumature del grigio, dice un altro di questi fotografi che è Bernard Plossu –, la sensibilità acuta, la semplicità cólta, la modestia inscalfibile, la poesia costante, la posizione etica e politica.
La splendida mostra in corso alla Triennale di Milano permette di rendersene conto. Si entra e si è accolti da una gigantografia, un enorme ingrandimento a parete, di una strada diritta fino all’orizzonte lontanissimo in un paesaggio desertico (Geoff Dyer ha scritto pagine bellissime sulle fotografie di questo topos del viaggio nel suo L’infinito istante [Einaudi, 2007]).
Tutta la lunga parete che corre lungo l’ampio corridoio è allestita con altre gigantografie che riprendono il senso del viaggio, intercalate da file di foto di formato normale dello stesso tema, all’insegna dichiarativa dell’“erranza”, che sfrutta naturalmente l’errare nei suoi vari significati, dal vagare allo sbagliare, ovvero l’andare all’incontro con l’oggetto senza meta, scopo né regola prefissati … leggi tutto