di Elémire Zolla
E comunque, la pazzia si addice alle donne.
Forse – più orfiche che Euridice – perché hanno la lucidità di emergere, un lucore d’inferi sul viso, la bava di chi ha visto. Esasperata eredità di baccanti, genetliaco legato a Proserpina, figure semplicemente in eccesso, fastidiose, al Salpêtrière, per lo più, capitavano isteriche – ovvero: anormali rispetto al codice della società normata.
Chi sviene, sul braccio di Jean-Martin Charcot, nel quadro che ne celebre le gesta sanitarie, è una donna, ‘Blanche’: gli studenti osservano, stupefatti; è una donna quella che bacia le mani di Philippe Pinel, pioniere della psichiatria, nella pittura agiografica che lo ritrae, siamo nel 1795, è una donna, pallida, sghemba, disastrata, quella che gli è condotta, una donna, seno in fuori, quella svenuta, poco oltre, una donna quella che grida, ossessa, inchinata, semivestita, in catene.
Il denudamento della psiche si lega alla nudità del corpo, allo svanire delle inibizioni, a un eros labirintico. Cambiano le macchine ma non gli esiti: le fotografie di Paul Regnard – si veda lo studio di Georges Didi-Huberman, L’invenzione dell’isteria, edito da Marietti – ritraggono, acconciate da indemoniate, donne; nel 2016, come Melanconia con stupore, per l’editore Raffaelli, Karen Venturini ha raccontato la storia di “trentaquattro donne ricoverate in manicomio fra Ottocento e Novecento”.
La pazzia, in ogni modo – e spesso in modi subdoli – ci attrae, come qualcosa che magnetizza a un’origine perduta, come il pericolo di perdere irrimediabilmente tutt’altro.
“Il mondo schizofrenico è un mondo di partecipazione mistica; ‘una indescrivibile estensione del sentimento interiore’… Le definizioni sono confini; gli schizofrenici vanno oltre il principio di realtà ed entrano in un mondo di relazioni simboliche… Gli schizofrenici vanno oltre il linguaggio ordinario per giungere a un linguaggio più vero, più simbolico…
Il linguaggio di Finnegans Wake. James Joyce e sua figlia, la pazza Lucia, sono la stessa cosa. Il dio è Dioniso, la folle verità”, scrive Norman O. Brown in Corpo d’amore. Era il 1966. Nel libro, è citato lo studio di Marguerite Séchehaye, Journal d’une schizophrène, epocale, da cui Nelo Risi, nel 1968, trae un film, Diario di una schizofrenica. La percezione è quella di sfiorare l’inattingibile, una profondità che ammutolisce.
In questo sfondo, nel 1958, Barbara O’Brien pubblica negli Stati Uniti Operators and Things: The Inner Life of a Schizophrenic. Il libro, al principio quasi ignorato, racconta, con linguaggio granitico, senza mediazione medica, il percorso di una schizofrenica, in un mondo schizoide, schizzato dall’epica del lavoro.
Non siamo al Salpêtrière, dove le donne venivano rinchiuse e ispezionate; l’etica è sempre quella della normalizzazione, del reintegro alla normalità. Il libro è tradotto in italiano sessant’anni fa, nel 1961, da Longanesi, con copertina lisergica e titolo differente, La schizofrenica; ora ritorna per Adelphi nel gergo originario, Operatori e Cose. Confessioni di una schizofrenica. Diversa la traduzione – allora di Olga Borsini Ceretti, oggi di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini – medesima la postfazione, di Michael Maccoby, psicoanalista di pregio, già collaboratore di Erich Fromm.
All’edizione odierna, tuttavia, manca il ‘pezzo forte’, per così dire: la Prefazione all’edizione italiana (Longanesi) di Elèmire Zolla, che apre inaugurando un confronto tra il testo della O’Brien e quello, d’altro tono, della Séchehaye … leggi tutto