La tendenza a ridurre l'incertezza e la complessità,
a fare previsioni e a individuare un inizio e una fine è incompatibile con la descrizione di processi che seguono logiche diverse
A dicembre la diffusione della variante omicron in molti paesi del mondo e un significativo aumento dei contagi hanno ampliato i margini di incertezza riguardo all’evoluzione della pandemia e alla previsione di quando diventerà un argomento meno centrale nelle cronache del tempo che stiamo vivendo.
Come accaduto in altre circostanze negli ultimi due anni, l’incertezza è diventata motivo di un’estesa e per molti versi comprensibile frustrazione, a sua volta legata a un condiviso scoramento per i condizionamenti esercitati dalla pandemia, in gradi e forme differenti, sulle vite di tutte le persone.
Ad accrescere il senso di frustrazione collettiva ha in parte contribuito la sostanziale impossibilità di accelerare i tempi di riduzione di quei margini di incertezza, percepita dalla gran parte dei media e dell’informazione generale come un ostacolo da superare il più velocemente possibile. La tendenza è di cercare di escluderla – più o meno gradualmente – dalle descrizioni accurate degli eventi, nel tentativo di renderle più chiare e comprensibili.
È una tendenza che in una certa misura ha a che fare con gli obiettivi stessi dell’informazione e con l’ambizione di spiegare le cose, ma che per altri versi trova una sua espressione in alcune forme di giornalismo che prediligono alle descrizioni la dimensione del racconto, e che fanno delle narrazioni uno dei principali strumenti di riduzione e addomesticamento della complessità.
In un passaggio di un articolo di fine anno in cui cerca di trarre insegnamento dalla rilettura dei suoi editoriali sul Washington Post, la giornalista conservatrice Kathleen Parker, peraltro premio Pulitzer nel 2010 come migliore editorialista, riferendosi a un suo pezzo sulla pandemia ha scritto:
A maggio parlai troppo presto, in un editoriale che celebrava un abbraccio a lungo rimandato con amici e amiche, e in cui dichiarai la fine dell’uso della mascherina. Difficilmente potrei essere biasimata, ma come apprendemmo in seguito, il virus – lungi dall’essere sotto controllo – è una creatura selvaggia con una scoraggiante facilità di travestimento. Nessuno rimase ferito dalla mia gioia, ma ripensandoci a posteriori lo scetticismo dovrebbe essere un ospite fisso a qualsiasi festa del giornalismo.
Il tentativo di ridurre l’incertezza attraverso schemi e modelli narrativi, raccontando storie che abbiano un inizio, uno sviluppo e una fine, e magari dei personaggi e dei colpevoli, può generare problemi più evidenti quando un certo grado di incertezza e l’assenza di processi con un finale già noto sono elementi costitutivi della parte di mondo che il giornalismo cerca di spiegare.
Eventualità abbastanza frequente nel caso del giornalismo scientifico … leggi tutto