L’incontro sarà, ormai lo sappiamo, ibrido.
Tutti insieme nella stessa stanza; qualcuno, distanziato, sarà seduto sulle sedie; altri ci osserveranno dall’alto, da uno schermo che noi vediamo senza essere visti. Il reale e il virtuale si specchiano uno nell’altro: il futuro è già qui tra noi.
Le ricerche digitali in corso scommettono sulla possibilità di trasformare l’immagine bidimensionale di ogni individuo in un ologramma che renda rappresentabile la nostra corporeità: per muoversi insieme, per potersi toccare senza essere nel medesimo luogo fisico.
Come accadeva nello spazio virtuale del metaverso, termine coniato nel 1992 dallo scrittore di fantascienza Neal Stephenson nel suo romanzo Snow Crash. Un’ambientazione divisa e doppia condensata in una parola sola: ibrido.
L’etimologia del termine non è troppo chiara, pare derivi dal latino hybrĭda che significa bastardo. In biologia con questo nome si intende un individuo animale, o vegetale, prodotto dall’accoppiamento di due razze o specie diverse. Il corso del tempo ha prodotto lo slittamento semantico del significato di bastardi – i nati da unione illegittima, prassi ora diffusa e non condannabile –, a bastardo nel significato di “etnicamente impuro”.
In diversi conflitti civili, nel caso jugoslavo addirittura in modo programmato a tavolino, la distruzione dell’altro era diventata un modo strategico per mantenersi “etnicamente puri”. Per sfuggire all’inammissibile di un sangue misto, per non ammettere di essere tutti inesorabilmente mescidati. Come sta accadendo un po’ dappertutto nel nostro mondo civilizzato. Dove la ricerca che avanza non è interessata alle tradizioni e ai miti delle origini nazional-nazionalistiche ma alle interazioni possibili tra uomo e robot.
La presenza di robot in abitazioni private, case di cura, ospedali faciliterà la conoscenza reciproca. Gli scienziati auspicano che la frequentazione degli umani li trasformi in esseri sempre più senzienti, e che un’aumentata capacità affettiva li renda terapeutici.
Il sistema multiagente di robot e avatar può essere un’inedita compagnia per degenze lunghe in pediatria oncologica, per stimolare e contenere i bambini autistici, per aiutare i bambini sordi, capendo qual è il momento migliore, entro il primo anno, per iniziare un intervento. Il robot giapponese PaPeRo ha una fotocamera per le riprese, una per il riconoscimento del volto, una funzione di riconoscimento vocale.
Chi lo ha progettato aveva la madre lontana e sola – il Giappone ha la popolazione più anziana al mondo –, l’isolamento prodotto dalla pandemia ha reso essenziali le facoltà di conversazione di questa macchina che possono essere attivate un’infinità di volte al giorno. La relazione con i robot non muta la costante antropologica: il bisogno di avere qualcuno con cui parlare.
Nella Vecchia Europa, disorientata e affaticata – un senso di stanchezza insonne pervade le conversazioni dentro e fuori la stanza dell’analisi –, il futuro desta poco interesse.
La popolazione italiana è considerata dai demografi quasi a rischio di estinzione: dal 2008 alla fine del 2021 la discesa è stata ininterrotta con un terzo esatto di nascite in meno in tredici anni (il tasso di natalità indica un 6,4 nati all’anno ogni mille abitanti, l’unione europea arriva al 9, il 40 per cento in più) … leggi tutto