Uno dei più celebri libri del Novecento è stato scritto da una ragazza nata a Francoforte nel 1929.
Lo ha cominciato quando aveva 13 anni e interrotto quando ne aveva 15. Nella primavera del 1945 la ragazza, che si chiamava Anne Frank, è morta nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, dov’era stata deportata qualche mese prima. Da allora il vuoto lasciato da quella ragazza non ci ha più abbandonati, venendo ad abitare dentro ciascuna delle nostre case. Anzi dietro: in un nascondiglio fatto non di mattoni ma di carta.
Da sempre i diari si nascondono dietro la grande casa della letteratura. Scritture figlie di un dio minore, private, frammentate, legate allo scorrere effimero del tempo, i diari occupano uno spazio talmente limitrofo alla quotidianità da ingannare sul loro reale statuto architettonico. Sono soffitte, ripostigli, parti invisibili degli edifici maggiori.
Luoghi nei quali ci si nasconde perfettamente bene, giorno dopo giorno: per quello è un genere considerato più femminile che maschile. Per quello, anche, ha contribuito in modo determinante alla nascita e al successo del romanzo moderno, che voleva trovare uno spazio di espressione alternativo alle grandi opere letterarie del passato, piuttosto simili a chiese o palazzi.
Il diario di Anne Frank è stato pubblicato per la prima volta in lingua olandese nel 1947, poi in milioni di copie in tutto il mondo. Intorno a questo diario si è creato un mito, o meglio un fenomeno di proporzioni gigantesche, le cui tracce si possono seguire nel libro di David Barnouw, Il fenomeno Anne Frank, pubblicato in edizione originale olandese nel 2012 e tradotto adesso in italiano da Gennaro Lauro per Hoepli, con una postfazione di Massimo Bucciantini.
La creazione di un “fenomeno”, quando non si tratti di un fenomeno naturale come una stella cometa o un’eclissi solare, è un evento sociale complesso, che coinvolge un gran numero di elementi che riguardano il nostro convivere, difficili da dipanare esattamente come quelli astronomici che provocano una cometa o un’eclissi. David Barnouw ci fornisce molti di questi elementi, per permetterci di capire come una ragazza del tutto sconosciuta, cresciuta ad Amsterdam a metà del Novecento, possa essere diventata in un tempo relativamente breve un’icona globale.
Si tratta di un miscuglio di elementi nobili e di altri meno nobili, come spesso accade per le umane cose. Un amalgama di santificazione e di commercializzazione. Bisogna accettarlo, se vogliamo capire qualcosa sull’origine e lo sviluppo del fenomeno Anne Frank: come anche bisogna accettare il fatto che non capiremo una parte rilevante di ciò che è davvero successo.
Accettare la parte che rimarrà misteriosa, casuale e buia, in questo maestoso processo di appropriazione pubblica di qualcosa che in origine era privato, ma che la scrittura ha reso potenzialmente accessibile a tutti.
Uno degli ultimi capitoli di questo libro si intitola A chi appartiene Anne Frank?. La domanda non è semplice. E anche disturba, ferisce da qualche parte. Perché evidentemente Anne Frank ha cominciato ad appartenere a tutti nel momento in cui ha smesso di appartenere a se stessa. E ha smesso di appartenere a se stessa in mezzo a quella spaventosa ondata di spossessamento di corpi, anime, oggetti che è stata la Shoah.
Prima di tutto Anne Frank appartiene al suo diario, che è l’unica cosa rimasta di lei. Ma quel diario a sua volta appartiene a suo padre, Otto Frank, che è l’unico sopravvissuto della sua famiglia. Otto Frank appartiene al popolo ebraico, altrimenti non avrebbe dovuto nascondersi e subire la deportazione a Auschwitz, seguita dallo sterminio della sua famiglia.
Ma non essendo un ebreo ortodosso, ha tenuto la figlia mezza dentro e mezza fuori: Anne Frank è prima di tutto un’ebrea, uno dei milioni di martiri della Shoah, e questo nessuno potrà né dovrà dimenticarlo.
Nello stesso tempo, però, è anche un’icona universale, che trascende la particolarità di quel grande male novecentesco che è stato il nazismo, come suo padre ha voluto che fosse … leggi tutto