C’è un ritmo silente e rapido che raccoglie – nel cinema – l’istante che ci abbandona, trasformandosi in calco indelebile e devastante che sovrasta le nostre relazioni umane.
“La facoltà di giudicare bene e di distinguere il vero dal falso è per natura eguale in tutti gli uomini, e che perciò la diversità delle nostre opinioni non dipende dal fatto che gli uni siano più ragionevoli degli altri, ma semplicemente dal fatto che conduciamo i nostri pensieri per vie diverse e non consideriamo le stesse cose”. Questa riflessione di Cartesio, del 1637, può ben introdurre la particolare azione di Hanna Polak sul cinema documentario: non considerare le stesse cose, restituendo con l’obiettivo anche il fuoricampo delle vite ai margini.
Per la Polak il cinema non è solo un metodo che può disvelare conoscenze, condurre indagini o sintetizzare una particolare visione di mondo, ma è essenzialmente un linguaggio che deve crescere insieme all’oggetto che filma. E questa crescita non è solamente autoriale ma è innanzitutto biologica e affettiva: ovvero fa parte di un film che azzera l’occhio sull’estetica per – letteralmente – convivere con la storia … leggi tutto