Il presidente della Repubblica ha chiesto la tutela del principio di legalità,
un elemento fondamentale dello Stato di diritto e che il Parlamento recuperi la piena autonomia della funzione legislativa. Non sarà facile, soprattutto la riforma del Consiglio superiore della magistratura
C’è un passaggio nel gran discorso di insediamento di Sergio Mattarella in cui evoca come bisogno collettivo la certezza del diritto: «I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone».
L’argomentazione è assai più complessa e raffinata di quanto la stampa e l’opinione politica abbiano saputo cogliere.
Eppure in queste poche righe forse ancor più che in quelle dedicate alla riforma del Consiglio superiore della magistratura si annida l’essenza dell’idea della nuova giustizia di cui il paese ha bisogno e che il presidente immagina.
Il «timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone», significa che la magistratura italiana ha smarrito in questi anni e già assai prima dello scandalo Palamara, la tutela di un diritto fondamentale: il principio di legalità.
È uno dei paradigmi fondamentali della democrazia liberale: è il patto sociale per cui lo Stato indica al cittadino con precisione quale siano le conseguenze delle sue azioni. Cosa è lecito e cosa è permesso: soprattutto cosa è un reato e ciò che reato non è.
In una società libera la tutela della libertà individuale passa dalla precisione con cui le leggi espongono le fattispecie di reato e ancora dal rispetto, accanto a quella sostanziale anche della legalità processuale, per cui è predeterminata la modalità di svolgimento del processo, le sue fasi, le condizioni di parità tra accusa e difesa, la ragionevole durata, l’onere gravante sulla prima di provare la colpevolezza dell’altra oltre «ogni ragionevole dubbio» (art.111 della Costituzione).
Già: coi dubbi in un sistema civile ci si dovrebbe fare al massimo qualche articolo del Fatto e non costruire indagini fantasiose e sentenze romanzesche.
Ogni riferimento al processo sulla trattativa Stato-Mafia non è puramente casuale e non soltanto perché Mattarella è siciliano ma perché quel processo arrivò a toccare la carne viva dell’istituzione presidenziale da lui oggi rappresentata, colpendo a morte un fedele servitore dello Stato, Loris D’Ambrosio magistrato consigliere giuridico del Quirinale e umiliando il suo predecessore Giorgio Napolitano chiamato a deporre davanti a una Corte di Assise avvolto dall’alone del dubbio di reticenza.
Ebbene proprio in quel processo si materializzò come mai altre volte la lacerazione della certezza del diritto.
Fu perseguita un’ipotesi di reato (l’attentato contro un organo costituzionale) del tutto inconferente col fatto ricostruito di una trattativa tra i carabinieri e la mafia che allora martellava l’Italia con una serie di attentati, un’attività invece coerente con le finalità d’indagine dell’Arma in quel delicatissimo frangente come sostenne (schernito da Marco Travaglio e dagli inquirenti palermitani) un finissimo giurista come Giovanni Fiandaca … leggi tutto