Simone Weil: l’ombra e la grazia (doppiozero.com)

di Enrico Monacelli

«Twice or thrice had I loved thee/Before I 
knew thy face or name»

(J. Donne, Air and angels)

Simone Weil fu visitata da un angelo. Accadde durante la Settimana Santa a Solesmes nel 1938, l’anno che per molti segna l’inizio dell’esperienza mistica di Weil e la sua conversione al cattolicesimo. Nella lettera che scrisse a Padre Joseph-Marie Perrin raccontandogli l’incontro, Weil ricorda questo messaggero divino in termini febbrili: per primo le aveva mostrato la «virtù soprannaturale dei sacramenti», trafiggendola con «lo splendore veramente angelico di cui pareva rivestito dopo essersi comunicato».

È difficile non immaginarlo avvolto in un manto di luce, il capo cinto da un’aureola di stelle. «Il caso – preferisco sempre dire caso anziché Provvidenza – fece di lui, per me, un vero messaggero», dice senza nascondere l’amore e la gratitudine che prova per lui. Nella sua Vita di Simone Weil (Adelphi, 1994) Simone Pétrement sostiene che questo angel boy – così lo chiamava Weil – si chiamasse John Vernon, ma i dettagli sono incerti. La stessa Pétrement ricorda chiaramente solo una cosa: le «parlò dell’angel boy e della luce che emanava dal suo volto».

La sua apparizione fu il culmine di un periodo violento e straordinario nella vita di Simone Weil. Due anni prima aveva partecipato alla guerra civile spagnola. Si era sempre considerata una pacifista, ma era perfettamente convinta che quando non si può più fare nulla per evitare la guerra l’unica alternativa percorribile è la lotta. Per sua stessa ammissione, Weil non poteva vivere stando nelle retrovie. Superò il confine spagnolo in agosto.

Dai racconti che ci sono giunti l’atteggiamento di Weil durante la guerra oscillò selvaggiamente: a volte sembrava una bambina pestifera tutta presa a tentare di intrufolarsi oltre le linee nemiche, altre veniva travolta dall’assurdità di una guerra che perdeva, nel sangue e nel fango, ogni carattere rivoluzionario. Il mondo si faceva sempre più cupo ai suoi occhi ma, ci racconta Pétrement, «mentre pensava che forse [i nemici] avrebbero tagliato loro la ritirata e li avrebbero uccisi, il mondo le era parso straordinariamente bello».

La sua esperienza si interruppe bruscamente a causa di quello che Perrin descrive amorevolmente come un «incidente provocato dalla sua mancanza di senso pratico»: infilò un piede nell’olio bollente, procurandosi una profonda ferita.

Passò il resto del 1936 e del 1937 fra la Francia e l’Italia. Un movimento carsico stava erodendo le sue certezze. Le sue posizioni filosofiche erano sempre state radicali e aveva sempre criticato ogni forma di progressismo, specialmente quello marxista. Per lei supporre che il mondo, per qualsiasi motivo, tendesse più o meno naturalmente al bene era un eccesso di sentimentalismo.

Era più materialista dei materialisti; in questo mondo non c’è né bene né male, la natura è indifferente e la società non migliora da sé. Il progresso è un’illusione che vela la verità del mondo, e lo mantiene immobile. La libertà si conquista lottando con i più deboli, chi viene schiacciato dalle violenze dei forti, e sottraendosi al potere in tutte le sue forme: lo stato e i suoi partiti, la polizia, le fabbriche, tutte le meschinità che ci infliggiamo quando ci riconosciamo in un “noi”.

Ma in questi anni Weil scoprì lentamente, dolorosamente la vera radice della sua radicalità. Scoprì la natura profonda della libertà per cui voleva lottare. Quando incontrò il suo angelo, questa scoperta divenne una vera e propria rivoluzione interiore.

Nel frattempo, la sua salute peggiorava. Le sue crisi emicraniche diventavano sempre più pesanti. Le sue piccole catastrofi cognitive l’avevano perseguitata da quando aveva dodici anni, ma la loro frequenza continuava ad aumentare facendole odiare il suo stesso corpo.

Scriverà qualche anno dopo all’amico e poeta Joë Bousquet di essere: «[…] abitata da un dolore localizzato intorno al punto di congiunzione dell’anima e del corpo». L’incontro con il suo angelo accade in un periodo nero, di profondo dolore. Quando lo raccontò a Padre Perrin confessò subito: «Avevo intensi mal di testa; ogni suono mi faceva male come un colpo […] un estremo sforzo di attenzione mi consentiva di uscire fuori dalla mia miserabile carne, di lasciarla soffrire sola, rannicchiata in un angolo, e di trovare una gioia pura e perfetta nella inaudita bellezza del canto e delle parole» … leggi tutto

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