Quando uno storico stimabile come il professor Canfora definisce i profughi «dei passanti»
e dice che l’invasione dell’Ucraina è colpa soltanto dell’Ucraina, significa che il dialogo non è possibile. Quando una filosofa autorevole come la professoressa Di Cesare spiega, quasi indispettita dalla domanda, che gli ucraini impegnati a combattere in difesa delle proprie case non vanno chiamati «resistenti» e, lungi dall’esprimere mezza parola di condanna dell’operato di Putin, afferma che accusarlo sarebbe «una semplificazione», significa che non può esserci dibattito.
Di che cosa dovremmo dibattere, di grazia, se un fatto oggettivo – A ha invaso B – viene rovesciato come nella favola del lupo e dell’agnello, e chi si permette di farlo notare è accusato di essere imperialista o ingenuo perché «la verità non è mai quella che appare»?
Riconosco la mia impazienza, anche se mi sforzo di guardare le cose con i loro occhi e passo le ore a rammaricarmi per l’estensione a est della Nato, per l’esistenza della Nato, per la mia stessa esistenza. Però un dialogo ha senso se serve ad avvicinare le posizioni di un millimetro.
In cambio dell’ammissione che tutto quanto succede al mondo è sempre un po’ colpa di Biden, mi accontenterei che i Canfora e le Di Cesare riconoscessero che Putin sta bombardando una nazione che non aveva bombardato la sua.
E che quando qualcuno viene picchiato da uno molto più grosso di lui, si invita il più grosso a smetterla, non il più debole.