Il profugo yazida parla dal campo bielorusso di Bruzgi,
in cui è bloccato con la famiglia: “In Iraq non c’è più niente per noi”
“Nessun essere umano dovrebbe vivere in questo posto e in queste condizioni. Se sono qui è perché ho la responsabilità di curare le mie figlie: sono stati i medici a dirmi di lasciare l’Iraq, perché solo all’estero avrebbero potuto trattare la loro malattia“. Yusuf è un profugo yazida di 35 anni e attualmente si trova bloccato con la famiglia nel campo profughi di Bruzgi, in Bielorussia, dove l’agenzia Dire riesce a raggiungerlo telefonicamente per verificare voci che circolano sullo sgombero del campo da parte delle autorità.
“Sì, è vero, prima eravamo 2.000, ora siamo rimasti credo in 250“, dice Yusuf. “I militari ci intimano di andarcene verso la Polonia o salire su voli di rimpatrio ma, anche volendo, in Iraq la mia casa non esiste più, dove devo tornare?”.
Come la maggior parte dei residenti del campo, nel passato di Yusuf c’è la guerra: proviene da Sinjar, città irachena nella piana di Ninive, teatro di un violento assalto nel 2014 da parte dei miliziani dell’Isis che secondo le Nazioni Unite compirono un “genocidio” sulla minoranza cristiana, mentre molte donne vennero rapite e impiegate come “schiave sessuali”. Yusuf non era ancora sposato e le sue tre figlie nasceranno più tardi, in un campo profughi nel Kurdistan iracheno dove ha trovato riparo ed è rimasto fino al 2021, quando ha deciso di venire in Europa.
Le bambine oggi hanno 4, 5 e 6 anni, “quella di 5 sta bene”, racconta Yusuf, “ma la maggiore e la minore sono affette da una patologia alle ossa: il loro corpo non cresce correttamente e hanno vari disturbi, ad esempio la piccola ha problemi ai polmoni e spesso deve respirare con l’ausilio dell’ossigeno, mentre la grande non ha alcune ossa del bacino e ha già affrontato due interventi chirurgici”.
In Iraq, racconta ancora, “abbiamo visto molti medici e fatto tanti esami. Ci hanno proposto cure che costavano oltre 3.000 dollari a settimana e davano pesanti effetti collaterali. Alla fine i medici mi hanno consigliato di andare via: ‘In Iraq le cure per voi non esistono’, mi hanno detto”.
Nel frattempo, dalla primavera scorsa, il governo bielorusso aveva iniziato a semplificare i visti per le persone provenienti dal Medio Oriente, e Yusuf viene a sapere che con circa 3.000 dollari a testa potrà raggiungere il Paese e tentare poi di entrare in Europa.
“I medici sostengono che le terapie per le mie bambine siano in Olanda”, spiega. Con fatica raccoglie tra amici e parenti i 15mila dollari necessari, l’equivalente di cinque settimane di medicine non risolutive. “Non avevo scelta. Avevo anche contattato varie ong presenti in Iraq ma non erano state in grado di aiutarci“.
Una volta a Minsk, la giovane famiglia si avventura verso il confine con la Polonia e riesce ad oltrepassarlo: “È stata dura, abbiamo dormito con le bambine nei boschi, con la neve. Poi i militari polacchi ci hanno trovato e un’ambulanza ci ha portato in ospedale. Credevamo di avercela fatta”.
E invece, senza aver potuto fare richiesta d’asilo, “dopo aver valutato che stavamo bene i militari sono tornati a prenderci e ci hanno riportato al confine con la Bielorussia. Da allora siamo a Bruzgi”.
Vivere qui, riferisce l’uomo, significa subire altre violazioni dei diritti: “Ci danno da mangiare due volte al giorno: al mattino tè con biscotti, a pranzo tè, patate e semolino. Per le cure abbiamo dei piccoli ambulatori medici. I bagni sono sporchi, la doccia si fa una volta a settimana e per ricaricare i telefoni dobbiamo affidarci a un ambulante che ogni tanto viene qui a vendere un po’ di cibo con la sua automobile.
Chiede 5 dollari ad apparecchio, li ricarica da un’altra parte e poi torna a riportarli tutti insieme”. Questa persona è l’unico civile che i profughi vedono nel campo: “Non ci sono giornalisti né assistenti sociali o avvocati”, racconta Yusuf. Che conclude: “Chiedo all’Europa di aiutarci: io voglio solo curare le mie bambine. Ho una responsabilità”.