Visto che il teorema dei neneisti nostrani (“è sbagliato resistere perché i russi vinceranno in breve”) viene smentito dalla realtà,
la nuova preoccupazione è che, se non è fermato, il conflitto aumenti di intensità e coinvolga anche altri Paesi. Cambiano le scuse, insomma, ma la richiesta è sempre la resa di Kiev
Nella guerra di Putin all’Ucraina più passano i giorni, più l’inevitabile vittoria della Russia – iniziale presupposto logico e retorico di ogni fervorino pacifista e neutralista – inizia a delinearsi per quello che è: un desiderio che non può essere confessato, ma neppure esaudito.
Poiché però la compagnia di giro dell’arrendetevi subito non è composta da santi e mistici anacoreti, ma da professionisti del baronato accademico e giornalistico e da mestieranti del dossieraggio para-spionistico, che sanno perfettamente come funziona il teatrino dei giornali e della tv e pure dell’Internet politico, tutti i principali campioni della pace senza se e senza ma hanno capito da tempo che era il caso di raddrizzare il tiro e di smettere di leggere i tarocchi della storia, vaticinando il rapido e inevitabile successo dell’invasione russa.
Quindi hanno iniziato a descrivere uno scenario diverso, in cui non è più doveroso che gli ucraini si arrendano per risparmiarsi gli inutili lutti della guerra, essendo comunque destinati a perdere la libertà politica, ma dove è necessario che smettano di difendersi per impedire che la loro resistenza, tutt’altro che vana, aumenti l’intensità e l’estensione del conflitto, istighi i russi a condotte irreparabili, coinvolga altri Paesi e mieta sempre più vittime innocenti.
Insomma, se nei primi giorni i capi-partito del Né con Putin, né con Zelensky potevano pure fingere di non dormire per l’inutile sacrificio dei bambini bombardati a Kharkiv e a Mariupol, oggi devono fare finta di non dormire per tutti i bambini del mondo e per tutti i bombardamenti, magari pure nucleari, che gli effetti a cascata della resistenza rischia di innescare fuori dai confini dell’Ucraina.
Così l’imperturbabile realismo pacifista dei primi giorni, in cui proprio l’inevitabilità della sconfitta imponeva il dovere della resa degli ucraini, è stato rapidamente riconvertito in un ardente irenismo moralista, che addebita all’efficace resistenza ucraina una responsabilità pari, se non superiore a quella russa per la prosecuzione della guerra e per la sua “mondializzazione”.
Insomma, per usare il gergo pandemico, è come se i pacifisti sostenessero che solo il lockdown strategico dell’Ucraina, cioè il confinamento di 44 milioni di esseri umani in una dependance territoriale di Mosca più o meno bielorussizzata, può impedire al virus della guerra di contagiare il mondo e questo sacrificio è ampiamente giustificato da un interesse collettivo che è oggettivamente prevalente, perché la pace di tutti viene prima della libertà di alcuni.
Se si possono avere ragionevoli dubbi che la strategia del confinamento generalizzato e dello “state tutti a casa” abbia avuto una reale utilità nel contrasto del Covid, non ce n’è alcuno circa il fatto che il sacrificio di un aggredito, per non ampliare il perimetro e le conseguenze dell’aggressione, comporta l’effetto opposto a quello auspicato.
È l’eterogenesi dei fini del churchilliano: «Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra» dopo il patto di Monaco e il sacrificio dei Sudeti, che avrebbe dovuto placare Hitler e mettere al sicuro la pace in Europa … leggi tutto