di Carlo Greppi
Lo storico partigiano
Dopo aver partecipato alla difesa di Roma e alla lotta contro i nazifascisti tra l’Umbria e le Marche, Roberto Battaglia a metà luglio del 1944 accettò di farsi paracadutare oltre la Linea Gotica e arrivò in Garfagnana.
Il futuro storico della Resistenza, la famiglia in salvo nella capitale liberata, aveva il compito di dirigere una formazione partigiana per conto del Partito d’azione di concerto con un maggiore inglese, Anthony John Oldham, detto semplicemente “Tony”.
Non era il primo straniero che Battaglia incrociava, nella sua vita in clandestinità. Ne aveva già incontrati parecchi, nei diversi mesi tra le bande: in particolare slavi in Umbria, disertori delle forze armate tedesche provenienti dall’Asia centrale – quelli che all’epoca chiamavano “mongoli”, o “russi turchestani” –, e soprattutto diversi altri militari alleati come Tony scappati dai campi di prigionia nelle settimane estive del 1943 e unitisi sovente alla lotta di liberazione.
Come avrebbe specificato nella sua Storia della Resistenza italiana, però, nella nascitura divisione Lunense “si tocca[va] forse il caso limite” di internazionalismo: se il Comando era collegiale ed era tenuto da lui stesso e da “Tony”, la compagnia di guardia era composta “da turkestani, disertori dell’esercito tedesco, jugoslavi, cecoslovacchi, alcune staffette di collegamento con l’Emilia francesi”; “Decine, dunque, di lingue, d’usi e costumi diversi: eppure era così semplice ‘vivere d’accordo’, senza che si producesse mai il minimo incidente dovuto a motivi nazionali”.
Questo coesistere era “del tutto naturale e logico”, come osservava già nel suo libro di memorie Un uomo un partigiano, pubblicato a guerra ancora in corso.
Battaglia fu il primo a porre la questione con forza, e se consideriamo che nei successivi decenni la dimensione internazionale della Resistenza italiana sarebbe stata largamente sottovalutata non possiamo non essere sopraffatti dallo stupore. Furono infatti oltre cinquanta le nazionalità che affollarono il partigianato, come hanno sottolineato i Wu Ming in un articolo che nel 2019 ha avuto il merito di proporre un accurato e aggiornato carotaggio di questo aspetto straordinario della lotta di liberazione.
Il dato più commovente, a mio modo di vedere, sono le migliaia di disertori delle forze armate tedesche (citerò poco oltre una mia stima per quanto concerne il fronte italiano) che scelsero il passaggio al nemico, anche a causa della percezione sempre più chiara della guerra ai civili messa in campo dai nazifascisti.
Perché, come avrebbe scritto sempre Battaglia – non senza una punta di commossa retorica – nella sua storia del movimento di liberazione, bisogna segnalare che il partigianato ebbe “la capacità di ‘recuperare’ e di strappare al nemico non solo le armi, ma gli uomini. Opera rischiosissima, che non sempre dette i frutti sperati, ma tuttavia costituì un’ulteriore e perentoria dimostrazione della validità internazionale della Resistenza: così forti, così imperiosi da far breccia persino nel compatto esercito tedesco”.
Tutto questo permise di “’recuperare’ alla causa dell’umanità non solo gli elementi inseriti in esso a forza”, avrebbe aggiunto rimettendo mano alla sua opera nei primi anni Sessanta (inserendo un nuovo paragrafo intitolato L’internazionalismo partigiano) e in un altro scritto coevo a questa rivisitazione (intitolato Partigiani tedeschi nelle file della Resistenza italiana), “ma anche gli stessi dominatori tedeschi, conseguendo così il punto più alto che possa conseguire un movimento di liberazione nazionale”.
D’altra parte, come disse ai suoi uomini il savonese Achille Cabiati (“Michelangelo”), comandante del distaccamento Calcagno della Divisione Garibaldi “Gino Bevilacqua” e futuro pittore e scultore, “ogni uomo del nemico che passa a noi vale per due: uno di meno a loro e uno di più a noi”; per questa ragione “bisogna[va] avvicinare tutti, soldati della Monte Rosa, Brigate Nere, San Marco, perfino i tedeschi […].
È vero che fra tanti ce ne possono essere di pericolosi, di increduli, di leggeroni e perfino di dichiarati avversari politici: questo è un rischio che dobbiamo correre, d’altra parte le loro scelte non sono state fatte spontaneamente”.
Il “tedesco buono”
Tra le vicende che Battaglia rievocò nei primi anni Sessanta, nelle sue pagine fondamentali dedicate all’internazionalismo partigiano, c’è quella di Rudolf Jacobs, oggi il più noto alla storiografia e nello spazio pubblico e “protagonista” del mio saggio Il buon tedesco. Ma nell’anno in cui uscì la prima edizione della sua storia della Resistenza, il 1953, non fece alcun riferimento né al tema in generale né tanto meno al caporalmaggiore della Kriegsmarineche si era unito a settembre del 1944 alla Brigata d’assalto garibaldina “Ugo Muccini” nel sarzanese.
Considerato l’inserimento successivo della vicenda negli scritti dello storico, non ci sono dunque elementi che ci possono permettere di ipotizzare che i due si siano incontrati: anche nelle memorie di Battaglia del 1945 infatti, a differenza di quello che farà un quindicennio più tardi, non si parla di quest’uomo che, dopo essersi distinto in zona come “il tedesco buono” per via del suo comportamento umano con la popolazione civile e inflessibile con i fascisti, si diede alla macchia nei pressi dell’Aurelia con il suo misterioso commilitone austriaco (che tutti ricordano come “l’attendente”), trovò riparo tra i contadini del posto intensificando i contatti con il partigianato locale, si unì alla “Muccini” e morì in un eroico assalto all’albergo Laurina, divenuto una caserma fortificata delle Brigate nere sarzanesi, il 3 novembre del 1944.
Questo significa che, amaro tiro della storia, è mancato un possibile momento di dialogo tra quello che sarebbe stato il più celebre storico della Resistenza italiana per decenni e quello che sarebbe rimasto a lungo il più celebre partigiano tedesco combattente … leggi tutto
(Rudolf Jacobs con i figli Wilhelm e Rudolf jr., s.d. ma 1942-43. Dettaglio della copertina di Lorenzo Vincenzi (a cura di), Rudolf Jacobs. Le radici della democrazia europea, Comune di Sarzana – Assessorato alla Cultura – Istituto spezzino per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea Pietro “Mario” Beghi – ANPI – Sarzana, Sarzana 2004 (fonte: Archivio privato della famiglia Jacobs))