Il comunicato delle donne del Pd di Rimini a tutela del buon nome degli Alpini,
apparso a molti una presa di distanza dalle tantissime che si erano sentite molestate durante l’adunata del prestigioso corpo d’armata, è emblematico di due bachi che affliggono il discorso pubblico.
Il primo è che qualsiasi appunto rivolto agli esponenti di una comunità viene vissuto come un attacco all’intera corporazione. Se scrivi che l’assassino era un geometra, ti arriva la replica offesa di un’associazione di amici dei geometri; se rilevi che il verduraio all’angolo ha alzato il prezzo dei carciofi, si indignano la federazione dei fruttivendoli e l’ente a difesa del carciofo.
Il secondo baco, ben più grave, è la tesi secondo cui una molestia diventa credibile solo in presenza di una denuncia all’autorità giudiziaria. Ma vi immaginate se una donna andasse in questura a segnalare ogni sguardo lascivo, ogni avance becera, ogni contatto non gradito?
Ci sarebbero le code fuori dai commissariati, con i numeretti. Una donna è costretta a selezionare le umiliazioni, limitandosi a dare seguito processuale ai soprusi più duraturi e violenti, e passando sopra a quelli occasionali, come gli apprezzamenti volgari di un branco di maschi eccitati da un cameratismo greve spacciato per goliardia.
Prima che giuridico, le molestie sono un problema culturale. Ed è incredibile doverlo ricordare alle donne di un partito di sinistra che, per la smania di non offendere gli Alpini, hanno finito per offendere un po’ anche sé stesse.