In Cassazione ha accolto pochissimi ricorsi: l'indole da pm non è mai svanita. Il caso limite di un senzatetto
Bisognerebbe dirlo al signor Mohamed E.D., ciò che la Associazione nazionale magistrati va spiegando in ogni dove in queste settimane: e cioè che un sistema in cui lo stesso magistrato fa prima il giudice e poi il pubblico ministero, o viceversa; e poi magari cambia di nuovo casacca, in un alternarsi di ruoli; tutto questo è nell’interesse del cittadino, perché quel magistrato avrà visioni più ampie, una cultura del diritto e non dell’accusa fine a se stessa. Per questo l’Anm si batte contro il referendum che il 12 giugno dovrebbe separare rigidamente le due carriere: invitando a votare no, o ancora meglio ad andarsene al mare facendo fallire il quorum.
Il signor Mohamed però ha sperimentato sulla sua pelle cosa significa essere giudicato da un giudice che fino a poco prima faceva il pm, e cioè l’accusatore di professione. Dell’intera categoria, si è trovato di fronte l’esempio più famoso: Piercamillo Davigo, per una vita sostituto procuratore a Milano, promosso dal Csm nel 2005 a giudice di Cassazione e nel 2016 a presidente di sezione. In quella veste, prima alla settima sezione e poi alla seconda, Davigo si è trovato a valutare centinaia di ricorsi: la maggior parte di imputati condannati, una quota minore di procuratori che impugnavano sentenze di assoluzione, o di condanne troppo blande (a loro dire).
Come si è comportato Davigo? La banca dati della Cassazione contiene 390 sentenze in cui il presidente era l’ex «Dottor Sottile» del pool Mani Pulite. Spulciarle una per una è una lettura istruttiva, e ancora più istruttivo è fare due conti. Come presidente della Settima sezione, Davigo esamina 66 ricorsi e ne accoglie solo due, obbligato a farlo perché nel frattempo la vittima ha ritirato la querela. Ma sarebbe sbagliato dedurre solo da questo l’idea di un Davigo implacabile: la Settima è una specie di sezione discarica, cui vengono inviati i ricorsi più chiaramente inammissibili. Niente di strano se Davigo si adegua.
Il problema è che la situazione cambia di poco quando, alla fine del 2017, Davigo passa alla seconda sezione. È una sezione «normale», dove l’annullamento di un numero significativo di condanne sarebbe la prova fisiologica di un buon andamento della Cassazione. Alla seconda, Davigo firma come presidente 305 sentenze. E per 226 volte dichiara inammissibile il ricorso: è la formula più dura, quella che fa diventare definitiva la condanna anche se nel frattempo il reato si è prescritto. A volte con poche righe, a volte più diffusamente, Davigo e i suoi colleghi di sezione spiegano che quei ricorsi non potevano neppure essere presentati, e condannano l’incauto ricorrente anche al pagamento delle spese.
Si dirà: 226 su 305 non sono poi tantissime, significa – matita alla mano – che in altri 79 casi l’implacabile Davigo ha preso atto che l’imputato aveva ragione a protestarsi innocente. Ha rinunciato, cioè, al suo vecchio teorema per cui «non esistono innocenti ma colpevoli che l’hanno fatta franca». In realtà per ben ventisei volte Davigo ha accolto ricorsi presentati dalla Procura, dalla Procura generale o dalla parte civile, che non si erano accontentate della sentenza di primo grado e d’appello. Anche in questi casi, la bilancia di Davigo ha pesato dalla parte dell’accusa, il suo vecchio mestiere.
Restano 53 storie di condanne annullate da Davigo, che sono poche ma dai, insomma, non pochissime. In quei casi il grande inquisitore si è ricordato che nel dubbio bisogna assolvere? Mica tanto. Undici sono decisioni inevitabili, perché nel frattempo il reato si era senza ombra di dubbio prescritto. Quattro sono ancora più inevitabili, perché in attesa della Cassazione l’imputato era addirittura morto. Una perché un reato non è più previsto dalla legge come tale, tre perché la querela della vittima è stata ritirata o non c’era proprio stata. Una per un macroscopico errore di competenza. Davigo ha assolto perché non poteva fare altro.
Restano, all’attivo della Seconda sezione presieduta dall’Implacabile di Candia Lomellina, una trentina di ricorsi accolti a favore degli imputati: il 10 per cento, in un anno (il 2018) in cui la media della Cassazione si attestava sul 17,6 per cento. É questa la «cultura della giurisdizione» invocata dall’Anm? E poi, che accoglimenti: modesti ricalcoli della pena, prevalentemente. I casi in cui il «Dottor Sottile» accoglie davvero le proteste di innocenza degli imputati sono sette. Sette.
Ma più di questo, a raccontare l’approccio della Seconda sezione targata Davigo serve la storia del signor Mohamed. Che aveva fame, e si era messo a frugare nel bidone della raccolta differenziata alla ricerca di qualcosa di commestibile, lasciando sul marciapiede quel che non gli serviva. Lo avevano denunciato per «imbrattamento di cose altrui», e un giudice caritatevole lo aveva assolto.
Ma il procuratore della Repubblica di Salerno fa ricorso in Cassazione, il fascicolo arriva alla sezione di Davigo, che accoglie l’impugnazione «in ragione del pregiudizio dell’estetica e della pulizia conseguente, risultando imbrattato il suolo pubblico in modo tale da renderlo sudicio, con senso di disgusto e di ripugnanza nei cittadini».
Davigo ordina un nuovo processo a Mohamed. Anche questa, forse, è «cultura della giurisdizione».