di Alessia Candito
Un guasto tecnico che manda all'aria l'impianto elettrico dell'aula bunker e causa la sospensione dell'udienza.
Scintille – metaforiche, queste – fra accusa e difesa che arroventano il clima in aula. Non è certo un’udienza che scorre via tranquilla, quella in corso oggi all’aula bunker di Palermo. Il processo è quello che vede il capo politico della Lega, Matteo Salvini, imputato per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio perché da ministro dell’Interno per giorni ha impedito lo sbarco dei 147 migranti salvati nell’agosto 2019 dalla nave ong Open Arms.
E alla sbarra a deporre c’è Fabrizio Mancini, direttore del Servizio Immigrazione del ministero dell’Interno.
Da lì passavano le richieste di autorizzazione allo sbarco che inutilmente la ong catalana ha inviato per giorni, mentre a bordo – ha raccontato in mattinata Maria Di Natale, medico del Cisom – le condizioni sanitarie dei naufraghi peggioravano. In attesa che la nave fosse autorizzata ad attraccare a Lampedusa, in 31, disperati, si sono persino lanciati in mare pur di raggiungere la terraferma.
Al Viminale, si seguiva la situazione da lontano. “Non ci sono state risposte alle mie richieste di pos. Questo significa negativo. La linea generale era di non concedere pos alla Open Arms” dice Mancini, che in aula ricostruisce la lunga battaglia burocratica – tra ordinanze e ricorsi al Tar che le ribaltavano, mentre le richieste di porto sicuro si accumulavano inascoltate o respinte – andata avanti in quei giorni d’agosto.
Ma quando al testimone viene chiesto se Salvini sapesse che quelle richieste venivano rifiutate una dopo l’altro, esita, non si sbilancia. “La decisione se assegnare il Pos o meno – dice solo dopo molte domande – veniva dal gabinetto del Viminale. Ritengo che non sia possibile che un ministro non sappia cosa faccia il suo gabinetto”. Il pm Ferrara lo incalza, l’avvocato Giulia Bongiorno interviene a sua difesa, e sono scintille. “Il pm ha toni aggressivi con il teste” dice Bongiorno. Al presidente del Tribunale tocca sospendere la seduta per qualche minuto.
Ma anche alla ripresa Mancini si fa scappare forse qualche considerazione di troppo. “Io non voglio difendere l’onorevole Salvini, ma credo che rientri nei compiti del ministro dell’Interno tutelare la sicurezza del Paese” dice.
E poi “In quel momento si sentiva di tutto. Allora i salvataggi per carità si devono fare, però non si può escludere che in quella massa ci fosse qualche male intenzionato”. E sono di nuovo scintille. “Mi sembra di sentire un comizio del testimone!” sbotta il pm. “Lei non può interrompere il testimone” interviene subito Bongiorno.
Il clima si surriscalda ancora ma non tanto da costringere il presidente a mandare – nuovamente – tutti in pausa, ci pensa però l’impianto elettrico a mandare tutti in pausa. Improvvisamente salta la corrente e per almeno un’ora è impossibile proseguire.
Salvini si annoia, rimane per un po’ seduto, su twitter riposta un lancio che da notizie di nuovi arrivi a Lampedusa e commenta “e io sono a processo per aver fermato gli sbarchi… Non vedo l’ora di tornare a farlo, per proteggere il mio Paese”, poi esce fuori.
Fra rievocazioni di spuntini e cene golose- arancine, pane e panelle, cannoli – chiacchiere con i cronisti sulle bellezze di Palermo e qualche accenno alle amministrative e un “se bloccano twitter è un disastro”, il tempo passa e il guasto viene riparato. E tocca tornare in aula.
Parla la capomissione: “Alle nostre richieste di pos mai nessuna risposta”
Un muro di gomma durato settimane, scandito da richieste di autorizzazione allo sbarco ignorate o respinte, mentre le condizioni sanitarie e psicologiche dei naufraghi a bordo peggioravano. È il racconto di uno stillicidio che dura fino al venti agosto quello che viene fuori dalla testimonianza di Anabel Montes, capomissione di Open Arms in quell’estate 2019.
Lucida, precisa, Montes ricostruisce passo dopo passo quelle settimane a bordo. Il primo salvataggio, 55 persone al largo di Tripoli, quel secondo barchino che non hanno potuto soccorrere a causa di un espresso divieto della guardia costiera libica, un altro guscio di noce ancora. E poi subito le prime richieste di pos.
È il place of safety, il porto sicuro. Le leggi internazionali prevedono che sia il Paese più vicino a fornirlo. L’equipaggio di Open Arms e i naufraghi che hanno salvato hanno dovuto attendere quasi venti giorni.
Per ottenerlo ci sono voluti una sentenza del Tar, che ha annullato l’ordinanza del Viminale che vietava alla nave ong di entrare in acque italiane, e un ordine di sbarco immediato firmato dall’allora procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio … leggi tutto