Va in scena il prof. (doppiozero.com)

di Daniele Martino

Il fatal error per un prof è entrare in classe 
stanco, fiacco, mogio:

i giovani vampiri che lo attendono hanno sensori sottilissimi che avvertono che la preda in quell’ora sarai tu, urlante o meno; del resto, loro sono 25 e tu sei solo. Non sono poi così convinto che ai vecchi tempi le classi fossero così miti per default.

C’erano le punizioni corporali, il sarcasmo umiliante dei docenti («No dark sarcasm in the classroom!» cantavano i Pink Floyd in Another brick in the wall, 1979), ma se esiste un ribelle è perché esiste un’autorità; e le sfide all’autorità e i ribelli sempre esisteranno. Il prof, spiegano Mario Maviglia e Laura Bertocchi nel loro L’insegnante e la sua maschera. Teatralità e comunicazione nell’insegnamento (Milano, Mondadori Università), dovrebbe rendersi conto che quando entra in classe entra in scena.

C’è un pubblico sufficiente per definirlo una platea, per cui deve interpretare un copione; il copione, se non è più l’insegnamento con lezione frontale, il versar sapienza in teste vuote, resta il suo armamentario, la sua preparazione, quello che sa e come sa trasformarlo in apprendimento.

Non sarà sempre un combattimento, o una seduzione, ma se attiverà dialogo e tutta la missilistica delle più eterogenee metodologie didattiche ce la farà. Ma se il cosa insegnare è obbligatorio apprenderlo, il come comunicarlo rimane del tutto spontaneo e individuale. E non è “libertà di insegnamento” ma rischio di fallimento.

Nella didattica universitaria c’è un autore che da tempo lavora su nuovi paradigmi, Pier Cesare Rivoltella, che da fine anni Novanta ha scritto libri che avrebbero dovuto trasformarsi direttamente in direttive ministeriali, in criteri della selezione dei docenti (che si chiama ancora con orrendo lessico militare “reclutamento”): Teoria della comunicazioneNeurodidattica. Insegnare al cervello che apprende sono le basi della sua metodologia EAS (Episodi di Apprendimento Situato), che dal 2014 ha cominciato ad essere sperimentata qua e là; si propongono agli studenti esperienze di apprendimento «situato e significativo», che portano alla realizzazione di «artefatti digitali»; i nonni sacri di questa didattica sono Freinet, Montessori, Dewey, Bruner, Gardner, Don Milani, la Flipped Lesson…

Non ci mancano i modelli didattici e pedagogici avanzati: il problema, in una scuola italiana che strangola il 70% del tempo e dell’energia dei docenti in una ragnatela asfissiante e demotivante di riunioni, procedure, consigli, collegi, funzioni strumentali, procedure e normative è come riuscire a non perdere di vista l’unica cosa che conta, ovvero l’accadere di un apprendimento vivo, dinamico, emotivo nella vita degli studenti.

C’è chi “sa tenere la classe” e chi no. Non saper tenere la classe ha remunerazione karmica istantanea: ti faranno saltare i nervi, ti stancherai come una bestia e dopo qualche anno darai i numeri (tecnicamente si chiama “burn-out”). Quindi, dobbiamo saper tenere la scena. Sempre è stato così, e non potrà cambiare.

Ma i recenti decenni di life coaching e guru della comunicazione verbale, para verbale e non verbale hanno moltiplicato la strumentazione per arrivare a sapere cosa stiamo facendo, cioè alla “metacognizione del docente”: più che saper indossare la maschera dell’attore classico greco, i due autori nei fatti convincono che la maschera va gettata, invece … leggi tutto

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