È singolare l’atteggiamento delle forze più ostili all’invio di armi e a nuove sanzioni contro la Russia: Lega e M5S
Alla fine, l’appuntamento in Parlamento che doveva ridefinire la posizione del governo sull’Ucraina è stato meno drammatico del previsto. Mario Draghi ha rivendicato la continuità in modo netto e insieme abile.
E ha portato tutte le forze del Parlamento, compresa la destra di opposizione, a convergere su di lui. La tensione si è rivelata, invece, sulle riforme economiche: a cominciare dal disegno di legge sulla concorrenza.
Il premier ha convocato con urgenza e senza preavviso un Consiglio dei ministri, durato appena dieci minuti: abbastanza, tuttavia, per mandare una sorta di ultimatum ai partiti perché sblocchino provvedimenti fermi da mesi alle Camere. Entro maggio vanno approvati, anche ricorrendo alla fiducia.
È il segno di un’accelerazione che si aggiunge a quella sulla politica estera. E di una doppia sofferenza e insofferenza di Palazzo Chigi. Draghi deve affrontare in parallelo le convulsioni grilline e leghiste sull’aggressione russa all’Ucraina, e le resistenze e i veti tra i partiti che minacciano di mettere in forse l’intero piano di aiuti europei.
Chiamare a raccolta una coalizione resa ancora più litigiosa dalle scadenze elettorali è un modo per metterla di fronte alle proprie responsabilità; e di far capire che la mediazione non può diventare impotenza, né trascurare una tabella di marcia che si sta rivelando pericolosamente inadeguata.
Su questo sfondo, le polemiche pretestuose sugli aiuti militari all’Ucraina appaiono ancora meno giustificate. E l’aspetto singolare è l’atteggiamento delle formazioni di maggioranza più ostili all’invio di altre armi e all’aggiunta di sanzioni contro l’aggressione militare: Lega e M5S. Il «grazie» rivolto a Draghi dal leader del Carroccio, Matteo Salvini «per le parole di pace» tradisce il tentativo un po’ goffo di piegare la strategia di Palazzo Chigi a una narrativa salviniana considerata da molti filorussa.
Quanto ai Cinque Stelle, hanno rinnovato la richiesta di un voto del Parlamento, di fatto rifiutando l’impostazione che Draghi persegue in base al mandato ricevuto a marzo.
Giuseppe Conte, che non è un parlamentare, nega qualunque intenzione di logorare il governo o addirittura accarezzare una crisi. Sa che la sconfitta nella partita della presidenza della Commissione esteri al Senato, vinta da uno schieramento che ha scelto la berlusconiana Stefania Craxi contro il candidato grillino, ha mostrato tutta la debolezza della leadership di Conte; e confermato il prezzo che l’ambiguità sul conflitto causato da Vladimir Putin sta facendo pagare al Movimento, privo di candidature e strategie credibili. Ma c’è qualcosa di più.
Nell’atteggiamento irritato e insieme quasi rassegnato di Conte si indovina la consapevolezza che il problema non è solo il conflitto con Draghi … leggi tutto