«Sì, è proprio il tempo e il posto di perder la testa per una ragazza.
Un partigiano serio come Milton». Beppe Fenoglio, Una questione privata (1963)
Siamo ormai a metà novembre del 1944 e la disfatta della città di Alba è già iniziata. Qualche mese più tardi, in una notte fredda e desolata, il partigiano Johnny avrebbe affrontato in solitudine un durissimo inverno; completamente assorto nel pensiero sulla prossimità della fine, Johnny non sembra essere (più?) in grado di prestare reale attenzione alle parole dei suoi compagni e non può che credere (o sperare) che «forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte.
Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno».
Questa immagine, che ritornerà quasi speculare all’inizio di Una questione privata (ma lo sguardo prospettico di Milton è ribaltato rispetto a quello di Johnny – «stava osservando la sua città dalla finestra della villetta collinare» – e procede dalla pianura alla collina di Alba, dalla Resistenza all’Amore), mostra ancora una volta come la vita, nel microcosmo storico del Partigiano Johnny e, più in generale, nell’opera di Fenoglio, «è talmente impossibile» durante la Resistenza che «la morte [è] troppo, troppo possibile».
In questo spazio letterario dove domina una forza oscura mai chiaramente, o volutamente, verbalizzata (se non, per l’appunto, ne La malora) e visibile nitidamente agli occhi dei personaggi e del lettore – l’oscurità è una presenza fisica, «abbarbicata agli alberi della circonvallazione ora appariva concreta e macignosa, quasi meniale») –, la vita stessa, anche quando dura e resiste alle avversità del tempo e della storia («mentalmente s’inginocchiarono, pregarono per la discesa della neve, tanta neve da seppellire il mondo, cancellare ogni strada e sentiero, incapsulare ogni uomo vivente in un buco cosy, inaccessibile alla specie umana»), non basta più a Johnny («io sono vivo.
Ma sono vivo? Sono solo, solo, solo e tutto è finito») e a Milton («In che stato sono. Sono fatto di fango, dentro e fuori. Mia madre non mi riconoscerebbe. Fulvia, non dovevi farmi questo. Specie pensando a ciò che mi sta davanti») per non soccombere all’ineludibile destino che li attende alla fine del Partigiano Johnny e di Una questione privata.
Il destino del partigiano è intriso di questo «paesaggio di vita e di morte», di questa sospensione parziale del tempo storico e del tempo biologico tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Nell’epopea storica di Fenoglio, i personaggi dei suoi romanzi – ma anche dei racconti, delle pièce teatrali e, volendo, dei suoi epigrammi – si muovono lungo due linee della Storia: da un lato, vivono e attraversano la dimensione dello Schicksal, il destino immodificabile a cui tende la Schickung, la destinazione individuale dell’uomo, la sorte che lo aspetta di fronte al limite/confine della morte; dall’altro, le creature finzionali di Fenoglio vivono e attraversano la dimensione dello Geschick, il destino comune della storia collettiva (Geschichte) che accade (geschieht) attraverso la libertà e le azioni degli uomini.
Nella sua duplicità semantica ed etimologica (Schicksal rinvia a vocazione, mentre Geschick è, a suo modo, storia), il destino tocca i modi romanzeschi della narrativa (novecentesca) e la costruzione di una vita (in)autentica da parte di quei personaggi (Marcel, K., Bloom, Mattia Pascal) che diventano a loro volta testimoni della crisi della realtà e della sua tensione epica, e di cui le rispettive opere sono diretta espressione (la Recherche, Il processo, l’Ulisse, Il fu Mattia Pascal) – un’epica in negativo, quella di Fenoglio, edulcorata non dalla storia, ma dal linguaggio e dallo stile, che hanno reso allegoricamente esemplari, nella sconfitta, le vite dei partigiani Johnny e Milton … leggi tutto