Per ragioni che affondano nella nostra storia, il sistema del diritto è un vulnus permanente per la democrazia italiana.
I referendum sulla giustizia hanno fatto la fine prevista. Se ci fosse stata una vera campagna referendaria e, pertanto, una informazione diffusa, la percentuale di votanti sarebbe stata molto più alta ma il quorum non sarebbe stato ugualmente raggiunto. Basta che i fautori del «no» si astengano e la somma fra astensione fisiologica e astensione del «no» è sufficiente per vanificare un referendum.
Ma il fallimento non elimina il problema, la malattia di cui soffre il sistema giudiziario. È stato interessante vedere diversi magistrati che, insensibili al richiamo delle sirene corporative, hanno votato «sì». Si trattava di professionisti consapevoli della malattia.
Il funzionamento del sistema giustizia ci dice ciò che c’è da sapere sulla qualità di una democrazia. I diritti del cittadino diventano carta straccia quando, da un lato, chiunque abbia un diritto leso, non trovi, con la massima rapidità possibile, un giudice, penale o civile, che gli renda giustizia.
Inoltre, e qui mi riferisco alla giustizia penale, un cittadino indagato o inquisito conserva intatti i suoi diritti costituzionali solo a certe condizioni: se ci sono garanzie contro gli arresti ingiustificati, tutela del suo diritto a non essere trattato da colpevole prima che intervenga una sentenza definitiva e, per conseguenza, un equilibro fra i poteri dell’accusa e quelli della difesa, e un giudice sicuramente terzo, non per buona volontà ma per necessità.
Per ragioni che affondano nella nostra storia il sistema giustizia è un vulnus permanente per la democrazia italiana. Per l’inefficienza sistemica e per i suoi tratti autoritari. L’inefficienza è testimoniata dalla lunghezza dei procedimenti.
Per ciò che riguarda i tratti autoritari l’elenco è lungo. Pubblici ministeri i cui eventuali comportamenti scorretti, lesivi dei diritti del cittadino, non sono sanzionati (il Csm, dominato dalle correnti, ha dimostrato di essere un controllore inefficiente o inesistente), irresponsabilità di chi si dice sottomesso solo alla legge (ma, in realtà, alla «interpretazione» della legge sua e dei suoi colleghi), arbitrarietà nelle scelte di quali inchieste fare o non fare (al riparo della finzione detta «obbligatorietà dell’azione penale»), principio di non colpevolezza travolto nella pratica mediante la carcerazione preventiva.
E travolto nella consapevolezza generale, per effetto dell’unità delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, dall’uso di chiamare «giudici» i pubblici ministeri (ricordate il «giudice Di Pietro»? Mai stato un giudice). Talché gli atti dei procuratori diventano per tanti l’equivalente di sentenze e l’inquisito un colpevole a prescindere dal fatto che ci sia poi o no un processo. Da tutto ciò deriva uno squilibrio radicale fra i poteri della accusa e quelli della difesa, incompatibile con i principi della democrazia liberale.
Ci sono svariati modi di fare un uso autoritario della giustizia. C’è quello «classico» del controllo governativo sui giudici (la strada oggi praticata da Polonia e Ungheria) e c’è il modo, sui generis ma ugualmente autoritario, che mette la vita delle persone alla mercé delle decisioni di altri i quali, in questa delicatissima attività, non sono controllati né, eventualmente, sanzionati, da alcuno … leggi tutto