Inteso propriamente come quest il giornalismo di inchiesta si rifà a due modelli apparentemente simili,
ma in realtà opposti e quindi da tenere ben distinti.
Il primo modello è siccitoso. Il giornalista è il rabdomante che si muove in un mondo roccioso, spigoloso e arido e deve penetrare grotte e pertugi sperando di scovare la desiderata e magari minima vena d’acqua. Il secondo modello è alluvionale: il giornalista deve evitare di soccombere nel flusso di dati di mugghiante e frastornante impetuosità in cui è immerso e setacciarlo per isolare i frammenti preziosi, come con le pepite fa il cercatore d’oro (che in portoghese porta il bel nome di “garimpeiro”).
Il punto di similitudine è che in entrambi i casi si cerca il poco che è nascosto. Il fondamentale punto di divaricazione è che nel primo caso a nasconderlo è l’assenza, nel secondo caso è l’eccesso di presenza.
In un’onorata carriera di “garimpeiro” politico-parlamentare per Panorama, poi per La Stampa e infine per Repubblica, Filippo Ceccarelli ha accumulato un archivio di proporzioni leggendarie. Setacciate per anni dalle agenzie, dai giornali, dalle proprie fonti le sue pepite sono state dichiarazioni e aneddoti, battute e “frame” isolati dalla circostanza spicciola che li aveva generati.
Ognuna di tali pepite è depositaria di un riverbero del potere italiano, per rappresentatività. Per quantità, sono tante da riempire il deposito di zio Paperone ed è proprio come lo “zione” disneyano che Ceccarelli, si può dire quotidianamente o quasi, si tuffava a estrarre gli esemplari più utili a inquadrare ciò che emergeva giorno per giorno dall’attualità.
A Mario Monti veniva regalato un cagnolino in diretta televisiva? Ceccarelli sguazzava e prontamente confezionava e recapitava al giornale un articolo che incastonava precedenti circostanziati e davvero parlanti a proposito di politica e animali domestici. E così per anni, nel tripudio di lettori affezionati e nel sostanziale rispetto con cui i protagonisti hanno sempre accolto le garbate, ma tutt’altro che indulgenti, ironie del ricercatore.
Il quale ricercatore giunse alla pensione nel 2015. Ben a suo agio non solo con sintassi e semantica della parola ma anche con l’eloquenza del gesto, Ceccarelli donò allora il suo archivio alla biblioteca della Camera, dove un Tir recapitò più di 300 raccoglitori, carichi di quasi 1500 cartelline.
Il deposito dei dobloni aveva già alimentato negli anni una discreta produzione di libri sui rapporti tra la politica e la cucina (Lo stomaco della Repubblica, Longanesi 2000), il sesso (Il letto e il potere, Longanesi 1994 e Feltrinelli 2007; La suburra, Feltrinelli 2010), la rappresentazione (Il teatrone della politica, Longanesi 2003), i segni rivelatori (Come un gufo tra le rovine, Feltrinelli 2013).
Arrivò quindi la summa: un libro di poco meno di mille pagine che dal corso impetuoso di sette decenni di vita repubblicana ricavava un repertorio certo scelto ma del tutto esauriente sulla politica italiana intesa come totalità. Un reference da compulsare per studio e memoria, ma disponibile anche a fruizioni bibliomantiche ad apertura di pagina o come I Ching, facendo invariabilmente cadere su annotazioni di pregnanza fatale.
Nessuna teoria, poche generalizzazioni, collezionismo minuto e sapiente, quindi eloquente, soprattutto nella dispositio dei preziosi frammenti. Il tutto raccolto all’insegna del titolo, enigmatico, di Invano (“In cosa si immedesima un autore? Negli avverbi” sentenziava Umberto Eco) e del sottotitolo, forse addirittura più sconsolato: Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua (Feltrinelli, 2018) … leggi tutto