M5S: il ritorno (frenato) alla lotta (corriere.it)

di Paolo Mieli
Si prevede che l’incontro tra Mario Draghi e 
Giuseppe Conte si concluderà con una stretta 
di mano
eppure tutto cospirava a incoraggiare Conte all’abbandono
I bookmaker pressoché unanimi prevedono che l’incontro tra Mario Draghi e Giuseppe Conte si concluderà con una stretta di mano. Forse addirittura con un abbraccio. Anche con un bacio? Qui gli allibratori sono più cauti e non prendono scommesse. Ritengono infatti che il presidente del Consiglio potrebbe essere disponibile, ma l’«avvocato del popolo» con ogni probabilità si ritrarrebbe.
Nel timore che i suoi seguaci giudichino eccessivo un tal gesto di effusione. Che la valanga messa in moto dal sociologo Domenico De Masi alla trasmissione radiofonica Un giorno da pecora vada a concludersi, invece che con l’uscita dal governo, addirittura con uno scambio di affettuosità, verrebbe considerato uno sfregio. Ancora per qualche tempo Conte, pur felice di non essere stato obbligato a gettarsi in una per lui innaturale avventura, non lo darà a vedere e dovrà continuare a fare il viso dell’arme.
In effetti tutto era predisposto per il grande passo. Sotto certi aspetti la scissione di Luigi Di Maio era stata provvidenziale perché, grazie ai fuorusciti dimaiani, in Parlamento, anche qualora se ne fosse andato il M5S, il governo avrebbe avuto la maggioranza. Certo il capo dello Stato ha sostenuto che, ove mai Conte avesse gettato la spugna, si sarebbe automaticamente dissolto l’ultimo governo di questa legislatura. Ma non è detto che davvero saremmo rotolati verso elezioni anticipate a ottobre.
A meno che Matteo Salvini non avesse deciso di seguire Conte nella sua avventura. Ma, compiendo questo passo, sarebbe stato lui, Salvini, ad addossarsi la responsabilità d’aver fatto cadere il governo. Cosa non impossibile, ma altamente improbabile.
Tutto cospirava dunque a incoraggiare Conte all’abbandono. Coro di lettere sui giornali simpatizzanti che unanimi spronavano l’avvocato a compiere il fatal gesto. Alessandro Di Battista che si dichiarava pronto a rientrare (dalla Russia) e a prendere il posto di combattimento lasciato libero da Di Maio. Maurizio Landini che già dava segni di euforia.
Lo storico dell’arte Tomaso Montanari esortava a rompere con Draghi «per tornare a parlare al Paese di un cambiamento radicale». Michele Santoro il quale (pur dichiarandosi indisponibile a sfruttare la propria popolarità «per un blitz elettorale che non va da nessuna parte») si diceva pronto, se Conte avesse dichiarato guerra, «a dare una mano». Solo Massimo Cacciari, a sorpresa, s’era mostrato recalcitrante e aveva speso addirittura qualche parola pro Draghi.
A dire il vero, anche qualche ministro Cinque Stelle tra quelli rimasti con Conte — Fabiana Dadone, Federico D’Incà, la sottosegretaria Alessandra Todde — aveva dato segni di esitazione. Per il resto, però, il coro di pentastellati a favore del ritorno alle antiche battaglie per la prima volta si è fatto sentire in modo ben distinto. Con dichiarazioni esplicite affidate a giornali e social: Paola Taverna, Riccardo Ricciardi, Michele Gubitosa, Alberto Airola (suo lo slogan riferito al governo: «le fragole sono marce»), Gianluca Ferrara, Luigi Gallo. A tal punto esplicite da dover essere ridimensionate o — come è capitato alla Taverna — attribuite allo staff.
Ma allora cosa è che ha avuto la capacità di interrompere questa emozionante corsa verso le praterie in cui pascolano le mandrie dei voti perduti? Cosa ha impedito a Conte e compagnia di gettarsi alla conquista (o riconquista) di voti pacifisti, insoddisfatti, nostalgici della stagione del «vaffa»?
Non certo il risultato della trattativa con Draghi … leggi tutto

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