In nome del populismo, Conte vuole lasciare il governo che dà soldi ai lavoratori (linkiesta.it)

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Nonostante le pressioni di Travaglio, 

Di Battista e compagnia bella, perfino l’ex premier intuisce che non c’è momento peggiore per abbandonare la maggioranza. Il problema è che la questione, ormai non più politica ma psichiatrica, sembra fuori dal suo controllo

La lunga notte dell’avvocato avrà portato consiglio? Nessuno si aspetta una conversione come quella dell’Innominato nella sua terribile veglia notturna ma un minimo di senso della realtà, questo si. Il fatto è che è difficile non rompere perché Marco Travaglio, Paola Taverna, Alessandro Di Battista, il “raggiano” Gianluca Ferrara e compagnia cantante martellano come fabbri perché il M5s torni libero e bello.

Ma è ancora più difficile rompere dopo che il presidente del Consiglio ti ha dato abbastanza ragione sull’urgenza di un intervento a favore del potere d’acquisto dei lavoratori e dei pensionati: come fai adesso a trovare una scusa credibile per prendere cappello?

All’incontro con i leader di Cgil Cisl e Uil insieme al presidente del Consiglio c’erano Andrea Orlando, architetto della possibile soluzione sul salario minimo agganciato ai più comuni contratti, Stefano Patuanelli e Giancarlo Giorgetti – entrambi silenti – e il più draghiano di tutti, Renato Brunetta: cioè i tutti i partiti di una coalizione che fibrilla mentre promette soldi ai lavoratori.

A memoria del cronista, una situazione inedita. Su questo fa leva un preoccupatissimo Enrico Letta che ieri ha visto il premier ed è impegnato a evitare il deragliamento della legislatura proprio in questo momento. Il Nazareno come al solito appoggia Draghi ma ancora non ha capito che dimensione avrà l’intervento finanziario.

E lui, Giuseppi? Se fossimo ancora nei giorni di Wimbledon diremmo che Conte sta facendo il “tergicristallo”, ossia corre da una parte e dall’altra – mentre, al di là della rete, Draghi non si scompone – costretto a sparare colpi a casaccio, con metà dei suoi fan che lo incitano a tirare sempre più forte e l’altra metà che gli consiglia di rallentare il ritmo, e così il buonuomo si trova ad essere pressato su entrambi i fianchi, una condizione impossibile che non gli consente di ragionare.

Il direttore del Fatto, ormai preda di un nichilismo minore ma comunque preoccupante, gli intima di fregarsene di tutto e di tutti, l’importante è guardare solo se stessi come i dandies dell’Ottocento, la realtà può aspettare, prima di tutto viene l’ego.

Poi c’è un ministro come il già citato Patuanelli che non ha mai spiegato bene il perché ma pensa sia meglio uscire dal governo, salvo poi assicurare che egli resterà ministro «domani e dopodomani» e restare rigorosamente in silenzio nella riunione tra governo e sindacati di ieri mattina: qui, senza ironia, forse c’entra un poco quell’interrogarsi un po’ svagato del suo il conterraneo letterario triestino, l’Alfonso Nitti di “Una vita” di Italo Svevo, ma sta di fatto che il buon Patuanelli non pare avere le idee chiarissime.

Ecco, sentendo ieri Draghi spiegare come al solito per filo e per segno perché occorra un intervento «urgente» (non ha quantificato ma ha parlato di cuneo fiscale, salario minimo, rinnovo dei contratti, misure di contrasto all’aumento dei prezzi) viene da chiedere ai grillini cosa c’è che non va.

Gliel’ha proprio sbattuto sul muro, il premier: insomma, se soffrite a stare al governo, ditelo. E valeva anche per la Lega, mentre un corrucciato Giorgetti guardava per aria.

Chiaramente uno come Draghi non utilizzerebbe mai nemmeno alla lontana una vecchia frase di Bettino Craxi che esemplificava in modo inequivocabile il suo umore («Mi sto rompendo i coglioni») e però il senso delle sue peraltro brevi considerazioni politiche è parso un po’ di questo tenore («Con gli ultimatum il governo cessa di esistere») … leggi tutto

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