La crisi e il «no» populista (corriere.it)

di Massimo Franco
Apripista di una crisi surreale è stato il M5S, 
con il no di sei giorni fa alla fiducia sugli 
aiuti alle famiglie. 
Ma a dare il colpo di grazia è stato l’altro populismo, che pure è parte della maggioranza: quello del centrodestra
La nemesi di un populismo in declino sta portando alla caduta del governo di Mario Draghi. E, in assenza di novità, a elezioni anticipate probabilmente a fine settembre. Apripista di una crisi surreale è stato il M5S, con il no di sei giorni fa alla fiducia sugli aiuti alle famiglie.
Ma a dare il colpo di grazia è stato l’altro populismo, che pure è parte della maggioranza: quello del centrodestra. l capo della Lega, Matteo Salvini e, di rincalzo, quello di FI, Silvio Berlusconi hanno reagito al discorso fermo pronunciato ieri mattina dal premier al Senato, ponendo condizioni apparse subito irricevibili.

A un Draghi che chiedeva alla propria coalizione se si sentisse pronta a proseguire le riforme iniziate nel febbraio del 2021, la risposta è stata un «no». Un rifiuto affidato dal M5S ai fantomatici «nove punti» di Giuseppe Conte; e dal centrodestra, alla richiesta di un governo Draghi bis, avanzata sapendo che non poteva passare per mancanza di tempo e di condizioni politiche.

Perfino la non partecipazione di Lega e FI al voto di fiducia di ieri fa il paio con quella grillina. Ma tutto il dibattito sembrava un rinculo nel passato.

La «legislatura populista» nata nel 2018 con Conte e Salvini alleati, finisce accomunandoli nel tentativo di recuperare i consensi perduti assecondando gli istinti più irresponsabili. Perché a volere la crisi sono partiti in seria difficoltà: M5S, Lega e FI.

Del primo, da mesi si è costretti a seguire contorsioni e scissioni, riflessi di un declino forse irreversibile. Quanto a Salvini e a Berlusconi, mai così subalterno, non è chiaro se la decisione di affossare Draghi nasca dalla paura di rafforzare la sua «anomalia», o da quella di veder lievitare la destra d’opposizione di Giorgia Meloni.

Probabilmente, sono entrambe le cose. Ma hanno poco a che fare con l’interesse nazionale, e molto con la convinzione di incassare a breve una vittoria alle urne. Eppure, è difficile pensare che il loro elettorato approvi la defenestrazione dell’ex presidente della Bce.

L’idea che la fine del governo non abbia ripercussioni può rivelarsi illusoria. Già ieri si è dimessa da FI la ministra Maria Stella Gelmini, in dissenso con Berlusconi. E poi basta pensare ai sindaci, alle associazioni, ai sindacati, agli esponenti religiosi che si sono espressi a favore di Draghi, inascoltati.

A oggi, probabilmente a sinistra non esiste una coalizione con l’ambizione di vincere. Ma lo stesso centrodestra ha un profilo gonfio di contraddizioni. Può prevalere, ma non è chiaro se potrà davvero governare. Non è solo un problema di leadership tra Meloni e Salvini.

Si ripropone il tema della classe dirigente. E, fondamentale, quello di una collocazione internazionale che vede la Lega schierata su una linea ritenuta a dir poco indulgente verso la Russia; con Vladimir Putin pronto a festeggiare perché esce di scena l’odiato atlantista Draghi.

Quanto a Meloni, chiede da mesi il voto, ma è schierata nettamente con l’Occidente per l’aggressione russa all’Ucraina. In parallelo, però, non risparmia attacchi continui all’Unione europea. Certo, rispetto a quattro anni fa le parole d’ordine contro la moneta unica e l’Europa, e il neutralismo filorusso e filocinese che ha accomunato a lungo leghisti e grillini, oggi appaiono lunari.

Chiunque governerà dovrà rispettare gli obblighi che l’appartenenza alla comunità occidentale impone: anche perché al Quirinale rimane, come garante, Sergio Mattarella … leggi tutto

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *